giovedì 18 novembre 2010

Il Vino degli Amanti


Oggi un piccolo refuso dei miei pensieri è tornato a galla.
Un non so che mi ha stretto la gola con un cappio, in ricordo dei mesi passati.
Ho avuto per un attimo la sensazione che tutto fosse ricominciato, tutto come prima...tutto, inesorabilmente, come prima.
In quel refuso non c'era nulla di importante o di particolarmente prezioso, solo un dettaglio, uno stupido, insignificante, piccolo dettaglio, di quelli che nelle foto di insieme non si nota. Lo nota solo chi l'ha già vissuto, chi ha l'occhio allenato.

Se c'è una cosa che ho imparato ad amare tardi, quella è la poesia. La mia insegnante di italiano delle elementari mi prendeva in giro per la mia scarsa attitudine all'interpretazione delle poesie.
"Che vuol dire secondo te?" mi chiedeva. E io non sapevo mai che pesci pigliare. Eppure le parole non erano difficili, ero capace di inanellarle, di incastrarle una nell'altra mentre leggevo ad alta voce...eppure...non capivo perché fossero sistemate in quella forma, con quel ritmo, con quelle rime.
Ebbi un trauma fortissimo che si estinse molti anni dopo, grazie ad un signore di nome Pablo Neruda, l'uomo più innamorato del mondo.

Ma non mi dilungo.

Sulla mia banale borsa dei Beatles scrissi una poesia di una poetessa musulmana, A'isha Arna'ut. Brevissima, scritta in fretta con un UniPosca viola. In quel momento rendeva l'idea. Anzi, le idee. Le mie che non avevano più nome e giravano alla deriva in cerca di senso. Io, disintossicata da poco. Da droghe, lusinghe e promesse estinte.

La luce non ha forma
L'onda non ha confini
L' Io non ha facciate
La passione non ha orizzonti.

Sii luce
Onda
Passione.

Sii te stesso.

Nemmeno io ci avevo fatto caso, scrivendola. Arrivava dritta, come una freccia, lì, al cuore.
"Bella, quella poesia" mi disse "Mi piace molto. E' breve e diretta"
Io sorrisi. Non ci avevo davvero fatto caso, non fu un sorriso di circostanza.
E dato che la apprezzava così tanto, gliela scrissi su un foglio. Ci disegnai sopra uno dei miei schizzi contorti. Lui apprezzò. Non avevo un doppio fine, volevo solo portarlo a conoscenza di quello che ero in quel particolare momento, o meglio, di quello che volevo essere e che non ero ancora arrivata ad essere.

Quando decidemmo di stare insieme, tutto fu così facile...ripresi a scrivere con la passione di un tempo, ricominciai a leggere Neruda e riallacciai i miei complessi rapporti con Baudelaire e Verlaine.

Ma mi illusi che fosse facile, che mi bastasse solo aver ritrovato quello slancio surreale e stregato nello scrivere, nel trovare le parole giuste, i suoni, le immagini per dirmi veramente alla fine del mio cammino. Non era così. E me ne sono resa conto ripescando questo insignificante dettaglio dal pozzo abbandonato della mia mente.

Durante una lezione di russo particolarmente noiosa, un nebbioso sabato mattina, strappai dal mio taccuino a quadretti un foglio, presi dalla borsa I fiori del male e scrissi su quel foglio una poesia.
Il titolo mi attirava. Descriveva alla perfezione quella ebbrezza molesta dei primi tempi di una relazione, quella stessa che stavo vivendo. Si chiamava Il vino degli amanti.

Oggi lo spazio è splendido! Senza morsi né speroni o briglie,
via, sul vino, a cavallo verso un cielo divino e incantato!

Come due angeli che torturano un rovello implacabile oh,
nel cristallo azzurro del mattino, seguire il lontano meriggio!

Mollemente cullati sull'ala del turbine cerebrale,
in un delirio parallelo, sorella, nuotando affiancati,
fuggire senza riposi né tregue verso il paradiso dei miei sogni.

Senza riposi, nè tregue...
Sembrano passati secoli da quella volta in cui gli misi il foglio tra le mani e lui mi sorrise. Mi sembrò tutto più vivo, più vero e meno labile.
Ma durò poco...

venerdì 9 luglio 2010

Prigione


È tutto quello che mi rimane di te

Questo cielo bugiardo che ride di me

Del mio sguardo fuori posto, del silenzio

Che ha abbracciato le mie spalle

È tutto


Quella strada che abbiamo percorso senza guardarci

Con l’anima in tasca, al riparo dai rimorsi

Mentre le gambe imparavano i passi necessari

A non inciampare

Con il sole e quei palazzi e quei fiori rossi e quel mare tremante

E noi


Sto inciampando, nonostante sappia dove andare

E se la strada fosse nei tuoi occhi?

Se io dovessi esplorarne il fondo per capire che segnale seguire?

A che è servito conoscere

La musica dissonante e attonita della tua voce

Il battito lieve che dal tuo petto

Si insinuava nella mia pelle

Ad ogni abbraccio?


Le mie confessioni si sono mischiate allo iodio delle onde

E le lacrime inespresse, alla rugiada di quei fiori rossi

La mia mente è un pilastro battuto dal vento

Giace su un muro non lontano da te

E osserva andare e venire

Le lune e le maree

E Dio solo sa cos’altro se non le stelle

E le profezie e la fine del mondo e la gente…


Non esisterà un luogo abbastanza ampio per le nostre anime

L’ho imparato prima di conoscere il tuo nome

L’ho letto nello spettro chiaro dei tuoi occhi

Nessuna parola poteva fare altrettanto

E non ho il diritto di uccidere l’amore

Tanto meno quello che esala dalle tue labbra

Ma dalle tue mani non ho trovato pace

Dio solo sa perché ne ho trovata standoti lontana

Ma non è tempo di spiegare…


Ho sfoderato il coltello ed è diventato il mio amante

E nella notte che verrà il suo bagliore

Gareggerà con quello delle stelle


È davvero tutto quello che mi rimane di te

E delle tue parole di seta

Te l’ho detto, sono prigioniera nel marmo


Alzo la testa e vedo nell’antro buio del cielo

La mia natura di abbozzo anatomico

Le gambe già formate muovono verso l’esterno

Avide d’aria, di molecole di sole, di umanità

E poi miseramente si piegano

Vinte dalle catene marmoree del silenzio

Del tuo e di quello della mia voce di pietra

Il boato di chi è prigioniero di un’idea

Che muore tra quattro pareti, sotto mille occhi…


È davvero tutto quello che mi resta di te

Tutto è andato, tutto mi è scivolato addosso

Tutto ha lavato la mia pelle come la pioggia

Ma non ha lasciato tracce esterne

Solo nel mio cuore si contano le ferite


Il sentimento è stato una lotta intestina

Tra ragione e follia

Ed era scritto che vincesse la ragione, nessun dubbio

Che fosse il suo turno

E adesso solo questo mi resta di te:

Il segno delle catene.


venerdì 2 luglio 2010

Galleria - Omaggio a Daniil Charms


Le pietre bianche del selciato

Prendono fuoco con il tramonto.

Una vecchia vestita d’azzurro

Siede su una sedia tarlata e mangia una mela

Ha un occhio nero e l’altro verde

E le mani piccole e i capelli bianchi

È nodosa come un tronco d’ulivo

E guarda i gatti sdraiati a prendere il sole

Forse con qualche rimpianto.

Si riavvia i capelli con una mano

E mastica piano, aspettando la sera.


Più in là, un signore grasso legge il giornale

Seduto al tavolino di un bar del corso

Ma più che leggerlo, ne legge i titoli

Ha pochi capelli e la pelata lucida come una biglia

Ha i pantaloni grigi e sbiaditi

E gli occhiali sulla punta del naso

Il suo volto è giallo di itterizia

E le sue scarpe lucide brillano al sole.

Il signore chiude il giornale, lo arrotola

E lamenta che il suo amaro è troppo freddo.


Vicino alla chiesa, una signora vestita di nero

Parla con la sua vicina di casa

Ha il muso allungato e sembra un cane da caccia

Ha i capelli rossi raccolti in una treccia

Fatica a stare sui tacchi e si aggiusta la gonna.

La sua vicina di casa è sorda

L’apparecchio non si nota sotto i suoi capelli grigiastri

E stringe gli occhi quando parla

È piccola e ha un occhio guercio

Ma nel paese conosce tutti, dicono sia una maga.


E poi ci sono io

Ma nella galleria io sono un quadro senza senso

Uno squarcio nella tela

Che fende lo spazio per ritrovarne un altro

Ancora più immenso

Sono un errore di battitura che rende tutto inestimabile

Oppure semplicemente sbagliato.


Dipende da come si guarda la faccenda.


Io non faccio, non parlo, non scrivo

Ma sono

Non vi sembra assurdo?

Я такой, каким я есть. А вы? - Io sono quello che sono. E voi?


Sono pazza e lunatica, tremendamente, ma per gli amici mi impongo una sanità mentale che non posseggo solo per avere la capacità di dare consigli. E difatti sono bravissima a dare consigli che non sono capace di mettere in pratica per me stessa, è uno dei miei innumerevoli talenti. Quando non so trovare un consiglio adatto da dare a qualcuno preferisco tacere o, meglio ancora, rifletterci su. La cosa che mi stupisce di volta in volta è l’improvviso aprirsi di persone con cui avrò scambiato sì e no due o tre parole in vita mia, ma non pongo ostacoli ai flussi di coscienza delle persone, perché sono questi piccoli avvenimenti singoli a rendere manifesta la vera natura di chi mi trovo davanti.
Sono una fisionomista, ergo, non mi scordo mai di un viso se lo associo ad un ricordo e spesso, mea culpa, giudico il libro dalla copertina. Mi colpisce della gente che incontro ogni minimo, insignificante dettaglio: il sorriso più o meno aperto, gli occhi sfuggenti, un difetto di pronuncia, la lunghezza delle unghie, le parole che dice più spesso, il tono della voce. Ma non ho pregiudizi, questo il solo modo che ho per difendermi dalla natura subdola dell’essere umano, fa tutto parte del mio essere un tantino diffidente e, allo stesso tempo, del mio desiderio di capire quali sono i meccanismi che regolano tutti i rapporti interpersonali.
Sono nostalgica, e la mia (patologica) nostalgia nei confronti di tutto quello che si salva del mio passato prossimo e remoto si esplica nell’accumulo disordinato di tracce: scontrini, foglie morte, fiori secchi, conchiglie, cartoline, volantini, monete straniere, pacchetti di sigarette (vuoti, ovviamente), perline di bracciali rotti che mi propongo sempre di aggiustare per poi dimenticarmene dopo due minuti e altro. Le foto, quelle non sempre le salvo; non essendo fotogenica se non sotto sostanze stupefacenti o sotto alcolici, trovo fastidioso trovarmi davanti foto di vecchi amori ed esperienze passate discutibili. Le foto, alla fine, passano; i ricordi, quelli non passano mai, meglio farsene una ragione.
Sono innamorata della notte, potrei guardare un cielo stellato per ore senza stancarmene mai. So che sembra banale, ma non lo è; le mie poesie migliori le ho scritte di notte e le ho dedicate alla notte, e questo mi ha permesso di elaborare uno stile al limite del macabro, dell’esoterico, del mistico, spesso poco comprensibile e ancora più spesso fraintendibile. Scrivo poesie da anni ma ho perso la voglia di pubblicarle, mi piace che la gente a cui tengo le legga e le apprezzi e a me per ora va benissimo così.
Sono disordinata, caotica in ogni cosa che faccio, ma ho la passione necessaria per affrontare la vita, anche se mi mancano fermezza e cervello e lascio che spesso sia il cuore a muovere per primo. Il mio disordine mentale si riflette su quello che ho attorno; la mia camera, ad esempio, è un’emanazione diretta del mio Io, dotata di un ordine sovrumano e di un disordine ai limiti del ferino, stracolma di libri di poesia e di letteratura, con le pareti ricoperte di poster di Dalì, Klimt e Magritte, caratterizzata da un perenne odore di incenso, unica fonte di meditazione che di questi tempi riesca a trovare.
Sono una che arrossisce come una tredicenne quando parla in pubblico, e nonostante le mie innumerevoli riflessioni sull’argomento ancora non se ne vede la fine. Credo che sia tutto un blocco mentale, è come se mi aspettassi di dover parlare con persone che mi considerano inferiore a loro a prescindere. E spesso mi accorgo di quanto questo sia falso; a volte è semplicemente vero il contrario, e nel momento in cui me ne accorgo il rossore sparisce.
Sono sensibile e maledettamente empatica, quando mi affeziono a qualcuno non riesco a limitare la rabbia se quel qualcuno fa qualcosa che io considero una stronzata e mi intristisco quando vedo piangere qualcuno, salvo poi mettermi a piangere anch’io se quel qualcuno mi è particolarmente caro. L'attaccamento ad una persona mi spinge ad essere stronza e crudelmente sincera quando mi viene richiesto un parere; quando sono troppo mite ed esitante con una persona non le voglio abbastanza bene, ecco tutto. È il mio peggior difetto, anche se mi dicono che questo è un pregio, quello di prendere a cuore situazioni in cui io sono solo una consulente esterna; ma, come ho già detto, tutto ciò succede a chi ragiona quasi sempre col muscolo cardiaco.
Sono curiosa, ma non invadente; faccio domande per il gusto di farle, non ho l’anima da pettegola e non mi interessa conoscere le evoluzioni della vita di una persona, ma mi rincuora sapere che ho amici che non mi nascondono le loro preoccupazioni perché mi considerano affidabile. La mia curiosità mi induce a non fermarmi alla superficie delle cose. Per questo amo leggere, per questo non ho un genere musicale preferito, per questo non mi sono mai negata nessuna strana esperienza e nessuna conoscenza con persone totalmente diverse da me per gusti e per carattere.
Mi incuriosiscono le cose nascoste, quelle troppo evidenti finiscono per darmi sui nervi dopo poco tempo; questo è il motivo per cui cito Woody Allen e Michail Bulgakov più di Oscar Wilde.
Sono attaccata alla famiglia, forse perché la mia è enorme, chiassosa e affettuosa contemporaneamente, ma sono un caso patologico che smonta le teorie di Freud perché non ho un buon rapporto con mio padre. Forse per la troppa somiglianza, forse per il suo totale egoismo e per la mia buona dose di intolleranza nei suoi confronti, sta di fatto che provo fastidio per i ¾ dei suoi comportamenti anomali.
Sono una che ama ridere, ma non per questo sono stupida o vuota. In molte situazioni non amo essere melodrammatica o eccessivamente seria e preferisco dire qualcosa di stupido o di buffo e odio chi non è capace di vedere almeno una volta il lato ridicolo delle situazioni. Anche nelle situazioni più tese cerco un motivo per sorridere, se non per ridere, e questo è solo un modo per affrontare le cose con lucidità senza dare troppo peso a cose che non ne hanno alcuno.
C’è chi dice che non sono normale, e quello è vero. Ma mi piace molto di più dire che nella mia anormalità mi piaccio, sono quello che sono e non mi importa di quello che pensano gli altri.
Tempo fa scrissi una poesia ispirandomi ad uno scrittore russo a me molto caro e che finora non mi ha mai delusa, Daniil Charms. La chiusa di questa poesia è quanto di più eloquente io abbia mai potuto scrivere di me stessa e recitava così:

E poi ci sono io
Ma nella galleria io sono un quadro senza senso
Uno squarcio nella tela
Che fende lo spazio per ritrovarne un altro
Ancora più immenso
Sono un errore di battitura che rende tutto inestimabile
Oppure semplicemente sbagliato.

Dipende da come si guarda la faccenda.

Io non faccio, non parlo, non scrivo
Ma sono
Non vi sembra assurdo?



lunedì 1 febbraio 2010

OBECNI DUM – IL MUNICIPIO NUOVO Storia di un pianista



Il pianista guarda in basso

Osserva le sue dita plasmare le note

Tasti bianchi e tasti neri

In successioni che sembrano

Acrobazie

Di tendini e muscoli

Suona un Chiaro di Luna

Mentre sorge la luna

Sulle vie della città di nero velluto

Tra boccioli di luce e nuvole arancio

Intorno a lui crepita la folla

Voci che ripercorrono giorni, gioie, dispiaceri

E lui tutto accarezza con mani silenziose

Nei dolci sussurri

Del pianoforte

Noncurante delle mance

Dei camerieri, del fumo dei sigari,

Dei liquori, degli opali

Lui mesce un vino segreto

Il vino degli amori nascosti

I tradimenti e le colpe da espiare

Rinchiusi nelle celle segrete

Della musica

Accarezzano le labbra di chi beve

Di chi ascolta e di chi si abbandona alle parole

Si srotolano sui cristalli delle lampade

E affrescano le volte ceree del Cafè

Le note si fondono in sfumature dorate

Nella mia mente inebriata di storie

Mentre vivo, immersa l’anima nei tuoi occhi

E lui, che delle nostre anime tutto conosce

Chiude i suoi pensieri in un sorriso

Appena accennato

Sulle guance pallide

E prende i suoi applausi

Con un cenno del capo

Prima di distogliere ancora lo sguardo.



martedì 4 agosto 2009

Il corso #1


L'aria era opprimente, immobile, estatica. Sicuramente qualcosa fremeva in attesa di un segno, di un avvenimento, di qualcosa che scuotesse quella giornata d'Agosto, la prima domenica del mese.
Il Corso, nei pressi del Caffè degli Artisti, brulicava come un formicaio prima di una tempesta, ma con uno strano ritmo discendente. Un vecchietto tra i tanti che affollavano le panche dei giardini di Piazza Cavour si appoggiò a bastone e resto lì in piedi a guardare il mondo che gli camminava attorno con i suoi occhietti cisposi animati da una luce innaturale.

La coppola di fustagno a quadri che aveva in testa era troppo pesante per un tempo del genere, e anche la camicia era d'impiccio, ma il vecchio signore era troppo affezionato alla sua coppola e, in quanto alla camicia, sua moglie, donna dinamica e volitiva, non gliel'avrebbe fatta passare liscia se si fosse permesso di uscire di casa in disordine.

L'ultima volta che si era permesso di sedersi sui gradini della chiesa in canottiera, lei lo aveva costretto a farle la spesa, e il poveretto era tornato a casa con chili e chili di rape e due meloncini dalla polpa gialla di un chilo l'uno.

Solo al pensarlo, il pover'uomo scosse la testa e si aggiustò le maniche della camicia, quasi temendo che la moglie gli spuntasse alle spalle di soppiatto.

Soffriva di artrosi, il buon uomo, e le sue mani erano callose come radici di zenzero e nere come la terra. Anni e anni passati in campagna a scuotere i rami degli ulivi per far cadere le olive più belle nelle reti all'ombra degli alberi lo avevano reso possente, ma l'età lo aveva fatto curvare e lo aveva indebolito, e molto spesso si sentiva troppo stanco anche per starsene lì a guardare il mondo andare avanti mentre lui restava lì dov'era.


Più in là, una signora dall'età indefinibile, forse vicina alla quarantina, si recava a messa. Aveva il rosario tra le mani, un bel rosario di grani rosa, e una immaginetta della Madonna del Carmine nella borsa. Fin da quando era bambina pensava che Dio dovesse esistere per forza. Il perchè non se l'era mai spiegato, nè l'aveva mai cercato in nessun modo. Dio esiste e basta, si diceva, inutile chiedersi dove sia e a cosa pensi, e come sia e cos'abbia fatto.

Aveva lunghi capelli neri, un po' ondulati, molto lucidi, e gli occhi dello stesso colore, molto piccoli e ravvicinati. Le donne del paese la chiamavano "la biscia" proprio per questo, e anche per la sua indole cattiva e indolente. Era, come si diceva da quelle parti, "vacantina", che sarebbe come dire nubile. Non si era mai sposata nè aveva mai avuto figli, ma se c'era una cosa che le riusciva bene, quella cosa era mandare in confusione gli uomini sposati o in procinto di farlo.

Non era bella, ma sapeva quello che voleva, e questo era un vantaggio.

Ma, lo sappiamo tutti, questo modo di fare porta ad essere infelici e soli.

Chissà se questo fu il suo destino.

martedì 30 giugno 2009

Canicola


Canicola.
I capelli appiccicati dietro la schiena e il respiro corto. Camminavo da quasi mezz’ora per il corso, confortato dall’ombra vagante degli alberi, spinta dalla folla chiassosa ora a destra, ora a sinistra, come una foglia secca spinta ad un cammino tortuoso dal corso di un fiume in piena.
La luce era quasi accecante. Mai più avrei visto in vita mia un giorno così caldo, ed era solo Luglio. E mi si profilò in testa la domanda più banale del mondo (“Come sarà ad Agosto, se già a Luglio si muore?”), ma la scacciai con insolenza dalla mia testa e continuai a camminare. Dovevo raggiungere quel dannato autobus, dovevo tornare a casa, farmi una doccia, bere acqua ghiacciata, a costo di bucarmi lo stomaco.
Passai davanti ad un banchetto di gelati. Il proprietario, un ometto vecchio e cisposo, tondo come una biglia e con un sorriso sdentato, vendeva granite semi-sciolte, perché il frigo non reggeva un caldo così forte, il motore era troppo vecchio, diceva, ma si stringeva nelle spalle e ammiccava alla folla con noncuranza. La gente scappava dal caldo, lamentandosi delle spalle spellate e della pelle scottata, blaterando di cose senza senso. Anzi, pensai, di cose totalmente inutili.
Ma questo è normale, e non si può dire che io stessi pensando a qualcosa di più intellettuale.

“Mi scusi…”
Sentii una mano sfiorarmi una spalla. Mi voltai esitante e vidi dietro di me un vecchio, distintissimo signore. Lo osservai per un po’ prima di rispondere. Aveva i capelli completamente bianchi e il viso coperto di rughe, sottili come ragnatele, la pelle olivastra e curata, ma gli occhi…gli occhi brillavano come se crepitassero di scintille infuocate, come se si fossero trovati nel corpo sbagliato e fossero appartenuti ad un giovane ventenne appassionato e vitale.
Fu sicuramente il caldo a farmi esitare, non ero molto reattiva né tantomeno così disposta a relazionarmi con chicchessia, ero sudata e a disagio.
“Si?” risposi dopo un po’.
“Ecco…” cominciò lui. Aveva una voce profonda e nasale. “Mi chiedevo se potesse dirmi, signorina, dove si trova il Lungomare di questa città.”
Sgranai un po’ gli occhi e guardai oltre le sue spalle.
“Beh…il Lungomare è dietro di lei, signore.” E gliel’indicai con la mano, e con quel gesto abbracciai i giardini, il Margherita, il molo, le barche dei pescatori, il faro e infine il mare setoso e trasparente che quel giorno giaceva pigro e immobile nel suo letto sabbioso, indolente e scottato dal sole.
“Si, ma io cercavo una cosa in particolare. Io cercavo la statua di Mazzini.” Continuò il signore, passandosi una mano sul colletto della camicia.
Feci un mezzo sorriso e cercai di fare mente locale.
“Capisco. Beh, non può averla vista, è nascosta tra gli oleandri.” E gli spiegai sommariamente la strada, rassicurandolo che non era molto lontana. Il vecchio mi sorrise e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto bianco.
“Scusi se glielo chiedo” cominciai, abbastanza perplessa “Ma non ha caldo vestito così?”
Era, effettivamente, vestito molto fuori stagione. Portava una camicia blu scuro e una giacca che sicuramente era di velluto, sempre blu, e un paio di pantaloni beige (nonché un cappello simile ad un basco che gli copriva la fronte).
“Signorina, lei non sa che il caldo e il freddo sono mere sensazioni, è giovane e glielo concedo. Ma i dati empirici sono tutt’altra cosa. In questo momento penso alla neve e non sento caldo, e so che il caldo è solo una sensazione, una proiezione olografica che aiuta i negozi a vendere più costumi da bagno.”
Mi sorrise e io risposi con un’occhiata perplessa. Non so cosa mi passasse per la testa. Ma tutt’ora ritengo che nella mia testa ci fosse una disputa tra Tories e Whigs: l’emisfero destro mi diceva che quel vecchietto era fondamentalmente un po’ tocco e quello sinistro asseriva che invece qualcosa di logico in lui c’era, in fondo.
Decisi che era meglio andarmene. Per il bene del mio cervello.
“Spero di esserle stata utile. Buongiorno.” Mi voltai e ripresi a camminare, e già assaporavo il ritorno alle esperienze normali, alla vita normale, alla gente normale….

“Era notte, era Novembre. Pioveva a dirotto, non ricordo che anno fosse, ma a me sembra ieri, lo sa…?” cominciò lui.
Intorno a me tutto si pietrificò. Come se all’improvviso la sua voce mi avesse richiamato ad un abisso sinistro ma allo stesso tempo familiare, conosciuto, accogliente, a non so che era, tutto taceva, anche il sole aveva smesso di abbagliarmi. Mi toccai le braccia per assicurarmi di essere sveglia e rabbrividii quando sentii che non dormivo e che la mia pelle era ancora calda.
Lo guardai e mi sembrò che lui fosse grato della mia attenzione. Non parlai.
“E Lei era così bella da far desiderare alla luna di non essere mai nata. Eravamo nella sala da ballo di un hotel, e io ero solo un cameriere. Ricordo la luce delle lampade e l’odore di cera sciolta, e c’era un silenzio profondo, un silenzio assordante, e Lei era seduta su un divanetto rosso e leggeva Neruda. Aveva un vestito nero, di pizzo, e la sua pelle affogava nel nero delle trine, un crocifisso d’argento le cingeva il collo e aveva degli orecchini di perla, bianchi, splendidi. Sentivo la pioggia spaccare i vetri delle finestre e piegare i rami degli alberi, era crudele e crudamente malinconica, e non capivo se essa fosse fuori o dentro di me, capisce? Ero un ragazzo, un giovanotto assetato di vita, mai nella mia vita sentii dentro di me soffiare un vento tale da far appassire ogni pensiero e spazzare via mille futili cose…e dopo quella notte non lo sentii mai più. La mia anima era già sulle sue labbra di seta, avrei fatto qualsiasi cosa per toccarla e per sapere se fosse vera o se fosse un riflesso di chissà quale fantasma,o angelo che fosse. Tutto fu perduto, quella notte. Se solo avessi…ma lasciamo stare…a lei non interessano queste cose, lei penserà che sono pazzo…” e abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano diventati colate di lava e lapilli incandescenti, si muovevano come se dovessero afferrare una farfalla. La sua voce era spezzata, spietatamente sincera, spietatamente addolorata. Fece due passi indietro e si toccò il cappello come per salutarmi.
“Perché me l’ha detto?” chiesi. E non mi resi conto di stare piangendo, presa com’ero dal filo rosso della mia domanda. Il vecchio sorrise e si toccò di nuovo il cappello.
“Empatia, mia cara.” rispose con un sorriso stanco “Non c’è legge di natura o legge umana a riguardo. È un fenomeno assai curioso, assai curioso davvero. Una reazione chimica strana e, strano a dirsi, gli alambicchi di questa strana pozione sono gli occhi di chi guarda. E i suoi piangono. Se permette, vorrei chiederle perché piange.”
Sgranai gli occhi e mi asciugai le lacrime con quella domanda in testa.
“Non…non lo so. Mi crede se le dico che non lo so?” dissi, sorridendo e piangendo ancora.
“Certo che le credo, mia cara. E la risposta è: empatia. Significa che lei per un attimo beveva le mie parole e vedeva quel che i miei stanchi occhi vedevano come se fosse venuta fuori dal suo passato. Mi creda, non c’è risposta. E lei piange perché sa che non mi resta nulla, che il mio passato è il mio presente, e che il mio futuro sarà ancora il mio passato, fino alla tomba.”
Detto questo, mi salutò e si incamminò nel senso opposto al mio. Scomparve dopo poco, inghiottito dalla folla. E io non ebbi il coraggio di richiamarlo indietro. La vita riprese a scorrere, e non volendo pensare mi rituffai in essa e ripresi a fare la foglia inghiottita dalla furia del fiume della vita. Ma i pensieri, lo capii subito, scorrevano più veloci della vita. E mi sorpresi di capire che la gente intorno pensava di me che fossi diventata pazza. Io, pazza?
Pazzo è chi non ascolta, pazzo è chi non vive. Sorrisi e andai via. Avevo vissuto abbastanza.