martedì 30 giugno 2009

Canicola


Canicola.
I capelli appiccicati dietro la schiena e il respiro corto. Camminavo da quasi mezz’ora per il corso, confortato dall’ombra vagante degli alberi, spinta dalla folla chiassosa ora a destra, ora a sinistra, come una foglia secca spinta ad un cammino tortuoso dal corso di un fiume in piena.
La luce era quasi accecante. Mai più avrei visto in vita mia un giorno così caldo, ed era solo Luglio. E mi si profilò in testa la domanda più banale del mondo (“Come sarà ad Agosto, se già a Luglio si muore?”), ma la scacciai con insolenza dalla mia testa e continuai a camminare. Dovevo raggiungere quel dannato autobus, dovevo tornare a casa, farmi una doccia, bere acqua ghiacciata, a costo di bucarmi lo stomaco.
Passai davanti ad un banchetto di gelati. Il proprietario, un ometto vecchio e cisposo, tondo come una biglia e con un sorriso sdentato, vendeva granite semi-sciolte, perché il frigo non reggeva un caldo così forte, il motore era troppo vecchio, diceva, ma si stringeva nelle spalle e ammiccava alla folla con noncuranza. La gente scappava dal caldo, lamentandosi delle spalle spellate e della pelle scottata, blaterando di cose senza senso. Anzi, pensai, di cose totalmente inutili.
Ma questo è normale, e non si può dire che io stessi pensando a qualcosa di più intellettuale.

“Mi scusi…”
Sentii una mano sfiorarmi una spalla. Mi voltai esitante e vidi dietro di me un vecchio, distintissimo signore. Lo osservai per un po’ prima di rispondere. Aveva i capelli completamente bianchi e il viso coperto di rughe, sottili come ragnatele, la pelle olivastra e curata, ma gli occhi…gli occhi brillavano come se crepitassero di scintille infuocate, come se si fossero trovati nel corpo sbagliato e fossero appartenuti ad un giovane ventenne appassionato e vitale.
Fu sicuramente il caldo a farmi esitare, non ero molto reattiva né tantomeno così disposta a relazionarmi con chicchessia, ero sudata e a disagio.
“Si?” risposi dopo un po’.
“Ecco…” cominciò lui. Aveva una voce profonda e nasale. “Mi chiedevo se potesse dirmi, signorina, dove si trova il Lungomare di questa città.”
Sgranai un po’ gli occhi e guardai oltre le sue spalle.
“Beh…il Lungomare è dietro di lei, signore.” E gliel’indicai con la mano, e con quel gesto abbracciai i giardini, il Margherita, il molo, le barche dei pescatori, il faro e infine il mare setoso e trasparente che quel giorno giaceva pigro e immobile nel suo letto sabbioso, indolente e scottato dal sole.
“Si, ma io cercavo una cosa in particolare. Io cercavo la statua di Mazzini.” Continuò il signore, passandosi una mano sul colletto della camicia.
Feci un mezzo sorriso e cercai di fare mente locale.
“Capisco. Beh, non può averla vista, è nascosta tra gli oleandri.” E gli spiegai sommariamente la strada, rassicurandolo che non era molto lontana. Il vecchio mi sorrise e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto bianco.
“Scusi se glielo chiedo” cominciai, abbastanza perplessa “Ma non ha caldo vestito così?”
Era, effettivamente, vestito molto fuori stagione. Portava una camicia blu scuro e una giacca che sicuramente era di velluto, sempre blu, e un paio di pantaloni beige (nonché un cappello simile ad un basco che gli copriva la fronte).
“Signorina, lei non sa che il caldo e il freddo sono mere sensazioni, è giovane e glielo concedo. Ma i dati empirici sono tutt’altra cosa. In questo momento penso alla neve e non sento caldo, e so che il caldo è solo una sensazione, una proiezione olografica che aiuta i negozi a vendere più costumi da bagno.”
Mi sorrise e io risposi con un’occhiata perplessa. Non so cosa mi passasse per la testa. Ma tutt’ora ritengo che nella mia testa ci fosse una disputa tra Tories e Whigs: l’emisfero destro mi diceva che quel vecchietto era fondamentalmente un po’ tocco e quello sinistro asseriva che invece qualcosa di logico in lui c’era, in fondo.
Decisi che era meglio andarmene. Per il bene del mio cervello.
“Spero di esserle stata utile. Buongiorno.” Mi voltai e ripresi a camminare, e già assaporavo il ritorno alle esperienze normali, alla vita normale, alla gente normale….

“Era notte, era Novembre. Pioveva a dirotto, non ricordo che anno fosse, ma a me sembra ieri, lo sa…?” cominciò lui.
Intorno a me tutto si pietrificò. Come se all’improvviso la sua voce mi avesse richiamato ad un abisso sinistro ma allo stesso tempo familiare, conosciuto, accogliente, a non so che era, tutto taceva, anche il sole aveva smesso di abbagliarmi. Mi toccai le braccia per assicurarmi di essere sveglia e rabbrividii quando sentii che non dormivo e che la mia pelle era ancora calda.
Lo guardai e mi sembrò che lui fosse grato della mia attenzione. Non parlai.
“E Lei era così bella da far desiderare alla luna di non essere mai nata. Eravamo nella sala da ballo di un hotel, e io ero solo un cameriere. Ricordo la luce delle lampade e l’odore di cera sciolta, e c’era un silenzio profondo, un silenzio assordante, e Lei era seduta su un divanetto rosso e leggeva Neruda. Aveva un vestito nero, di pizzo, e la sua pelle affogava nel nero delle trine, un crocifisso d’argento le cingeva il collo e aveva degli orecchini di perla, bianchi, splendidi. Sentivo la pioggia spaccare i vetri delle finestre e piegare i rami degli alberi, era crudele e crudamente malinconica, e non capivo se essa fosse fuori o dentro di me, capisce? Ero un ragazzo, un giovanotto assetato di vita, mai nella mia vita sentii dentro di me soffiare un vento tale da far appassire ogni pensiero e spazzare via mille futili cose…e dopo quella notte non lo sentii mai più. La mia anima era già sulle sue labbra di seta, avrei fatto qualsiasi cosa per toccarla e per sapere se fosse vera o se fosse un riflesso di chissà quale fantasma,o angelo che fosse. Tutto fu perduto, quella notte. Se solo avessi…ma lasciamo stare…a lei non interessano queste cose, lei penserà che sono pazzo…” e abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano diventati colate di lava e lapilli incandescenti, si muovevano come se dovessero afferrare una farfalla. La sua voce era spezzata, spietatamente sincera, spietatamente addolorata. Fece due passi indietro e si toccò il cappello come per salutarmi.
“Perché me l’ha detto?” chiesi. E non mi resi conto di stare piangendo, presa com’ero dal filo rosso della mia domanda. Il vecchio sorrise e si toccò di nuovo il cappello.
“Empatia, mia cara.” rispose con un sorriso stanco “Non c’è legge di natura o legge umana a riguardo. È un fenomeno assai curioso, assai curioso davvero. Una reazione chimica strana e, strano a dirsi, gli alambicchi di questa strana pozione sono gli occhi di chi guarda. E i suoi piangono. Se permette, vorrei chiederle perché piange.”
Sgranai gli occhi e mi asciugai le lacrime con quella domanda in testa.
“Non…non lo so. Mi crede se le dico che non lo so?” dissi, sorridendo e piangendo ancora.
“Certo che le credo, mia cara. E la risposta è: empatia. Significa che lei per un attimo beveva le mie parole e vedeva quel che i miei stanchi occhi vedevano come se fosse venuta fuori dal suo passato. Mi creda, non c’è risposta. E lei piange perché sa che non mi resta nulla, che il mio passato è il mio presente, e che il mio futuro sarà ancora il mio passato, fino alla tomba.”
Detto questo, mi salutò e si incamminò nel senso opposto al mio. Scomparve dopo poco, inghiottito dalla folla. E io non ebbi il coraggio di richiamarlo indietro. La vita riprese a scorrere, e non volendo pensare mi rituffai in essa e ripresi a fare la foglia inghiottita dalla furia del fiume della vita. Ma i pensieri, lo capii subito, scorrevano più veloci della vita. E mi sorpresi di capire che la gente intorno pensava di me che fossi diventata pazza. Io, pazza?
Pazzo è chi non ascolta, pazzo è chi non vive. Sorrisi e andai via. Avevo vissuto abbastanza.

Nessun commento:

Posta un commento