martedì 4 agosto 2009

Il corso #1


L'aria era opprimente, immobile, estatica. Sicuramente qualcosa fremeva in attesa di un segno, di un avvenimento, di qualcosa che scuotesse quella giornata d'Agosto, la prima domenica del mese.
Il Corso, nei pressi del Caffè degli Artisti, brulicava come un formicaio prima di una tempesta, ma con uno strano ritmo discendente. Un vecchietto tra i tanti che affollavano le panche dei giardini di Piazza Cavour si appoggiò a bastone e resto lì in piedi a guardare il mondo che gli camminava attorno con i suoi occhietti cisposi animati da una luce innaturale.

La coppola di fustagno a quadri che aveva in testa era troppo pesante per un tempo del genere, e anche la camicia era d'impiccio, ma il vecchio signore era troppo affezionato alla sua coppola e, in quanto alla camicia, sua moglie, donna dinamica e volitiva, non gliel'avrebbe fatta passare liscia se si fosse permesso di uscire di casa in disordine.

L'ultima volta che si era permesso di sedersi sui gradini della chiesa in canottiera, lei lo aveva costretto a farle la spesa, e il poveretto era tornato a casa con chili e chili di rape e due meloncini dalla polpa gialla di un chilo l'uno.

Solo al pensarlo, il pover'uomo scosse la testa e si aggiustò le maniche della camicia, quasi temendo che la moglie gli spuntasse alle spalle di soppiatto.

Soffriva di artrosi, il buon uomo, e le sue mani erano callose come radici di zenzero e nere come la terra. Anni e anni passati in campagna a scuotere i rami degli ulivi per far cadere le olive più belle nelle reti all'ombra degli alberi lo avevano reso possente, ma l'età lo aveva fatto curvare e lo aveva indebolito, e molto spesso si sentiva troppo stanco anche per starsene lì a guardare il mondo andare avanti mentre lui restava lì dov'era.


Più in là, una signora dall'età indefinibile, forse vicina alla quarantina, si recava a messa. Aveva il rosario tra le mani, un bel rosario di grani rosa, e una immaginetta della Madonna del Carmine nella borsa. Fin da quando era bambina pensava che Dio dovesse esistere per forza. Il perchè non se l'era mai spiegato, nè l'aveva mai cercato in nessun modo. Dio esiste e basta, si diceva, inutile chiedersi dove sia e a cosa pensi, e come sia e cos'abbia fatto.

Aveva lunghi capelli neri, un po' ondulati, molto lucidi, e gli occhi dello stesso colore, molto piccoli e ravvicinati. Le donne del paese la chiamavano "la biscia" proprio per questo, e anche per la sua indole cattiva e indolente. Era, come si diceva da quelle parti, "vacantina", che sarebbe come dire nubile. Non si era mai sposata nè aveva mai avuto figli, ma se c'era una cosa che le riusciva bene, quella cosa era mandare in confusione gli uomini sposati o in procinto di farlo.

Non era bella, ma sapeva quello che voleva, e questo era un vantaggio.

Ma, lo sappiamo tutti, questo modo di fare porta ad essere infelici e soli.

Chissà se questo fu il suo destino.

martedì 30 giugno 2009

Canicola


Canicola.
I capelli appiccicati dietro la schiena e il respiro corto. Camminavo da quasi mezz’ora per il corso, confortato dall’ombra vagante degli alberi, spinta dalla folla chiassosa ora a destra, ora a sinistra, come una foglia secca spinta ad un cammino tortuoso dal corso di un fiume in piena.
La luce era quasi accecante. Mai più avrei visto in vita mia un giorno così caldo, ed era solo Luglio. E mi si profilò in testa la domanda più banale del mondo (“Come sarà ad Agosto, se già a Luglio si muore?”), ma la scacciai con insolenza dalla mia testa e continuai a camminare. Dovevo raggiungere quel dannato autobus, dovevo tornare a casa, farmi una doccia, bere acqua ghiacciata, a costo di bucarmi lo stomaco.
Passai davanti ad un banchetto di gelati. Il proprietario, un ometto vecchio e cisposo, tondo come una biglia e con un sorriso sdentato, vendeva granite semi-sciolte, perché il frigo non reggeva un caldo così forte, il motore era troppo vecchio, diceva, ma si stringeva nelle spalle e ammiccava alla folla con noncuranza. La gente scappava dal caldo, lamentandosi delle spalle spellate e della pelle scottata, blaterando di cose senza senso. Anzi, pensai, di cose totalmente inutili.
Ma questo è normale, e non si può dire che io stessi pensando a qualcosa di più intellettuale.

“Mi scusi…”
Sentii una mano sfiorarmi una spalla. Mi voltai esitante e vidi dietro di me un vecchio, distintissimo signore. Lo osservai per un po’ prima di rispondere. Aveva i capelli completamente bianchi e il viso coperto di rughe, sottili come ragnatele, la pelle olivastra e curata, ma gli occhi…gli occhi brillavano come se crepitassero di scintille infuocate, come se si fossero trovati nel corpo sbagliato e fossero appartenuti ad un giovane ventenne appassionato e vitale.
Fu sicuramente il caldo a farmi esitare, non ero molto reattiva né tantomeno così disposta a relazionarmi con chicchessia, ero sudata e a disagio.
“Si?” risposi dopo un po’.
“Ecco…” cominciò lui. Aveva una voce profonda e nasale. “Mi chiedevo se potesse dirmi, signorina, dove si trova il Lungomare di questa città.”
Sgranai un po’ gli occhi e guardai oltre le sue spalle.
“Beh…il Lungomare è dietro di lei, signore.” E gliel’indicai con la mano, e con quel gesto abbracciai i giardini, il Margherita, il molo, le barche dei pescatori, il faro e infine il mare setoso e trasparente che quel giorno giaceva pigro e immobile nel suo letto sabbioso, indolente e scottato dal sole.
“Si, ma io cercavo una cosa in particolare. Io cercavo la statua di Mazzini.” Continuò il signore, passandosi una mano sul colletto della camicia.
Feci un mezzo sorriso e cercai di fare mente locale.
“Capisco. Beh, non può averla vista, è nascosta tra gli oleandri.” E gli spiegai sommariamente la strada, rassicurandolo che non era molto lontana. Il vecchio mi sorrise e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto bianco.
“Scusi se glielo chiedo” cominciai, abbastanza perplessa “Ma non ha caldo vestito così?”
Era, effettivamente, vestito molto fuori stagione. Portava una camicia blu scuro e una giacca che sicuramente era di velluto, sempre blu, e un paio di pantaloni beige (nonché un cappello simile ad un basco che gli copriva la fronte).
“Signorina, lei non sa che il caldo e il freddo sono mere sensazioni, è giovane e glielo concedo. Ma i dati empirici sono tutt’altra cosa. In questo momento penso alla neve e non sento caldo, e so che il caldo è solo una sensazione, una proiezione olografica che aiuta i negozi a vendere più costumi da bagno.”
Mi sorrise e io risposi con un’occhiata perplessa. Non so cosa mi passasse per la testa. Ma tutt’ora ritengo che nella mia testa ci fosse una disputa tra Tories e Whigs: l’emisfero destro mi diceva che quel vecchietto era fondamentalmente un po’ tocco e quello sinistro asseriva che invece qualcosa di logico in lui c’era, in fondo.
Decisi che era meglio andarmene. Per il bene del mio cervello.
“Spero di esserle stata utile. Buongiorno.” Mi voltai e ripresi a camminare, e già assaporavo il ritorno alle esperienze normali, alla vita normale, alla gente normale….

“Era notte, era Novembre. Pioveva a dirotto, non ricordo che anno fosse, ma a me sembra ieri, lo sa…?” cominciò lui.
Intorno a me tutto si pietrificò. Come se all’improvviso la sua voce mi avesse richiamato ad un abisso sinistro ma allo stesso tempo familiare, conosciuto, accogliente, a non so che era, tutto taceva, anche il sole aveva smesso di abbagliarmi. Mi toccai le braccia per assicurarmi di essere sveglia e rabbrividii quando sentii che non dormivo e che la mia pelle era ancora calda.
Lo guardai e mi sembrò che lui fosse grato della mia attenzione. Non parlai.
“E Lei era così bella da far desiderare alla luna di non essere mai nata. Eravamo nella sala da ballo di un hotel, e io ero solo un cameriere. Ricordo la luce delle lampade e l’odore di cera sciolta, e c’era un silenzio profondo, un silenzio assordante, e Lei era seduta su un divanetto rosso e leggeva Neruda. Aveva un vestito nero, di pizzo, e la sua pelle affogava nel nero delle trine, un crocifisso d’argento le cingeva il collo e aveva degli orecchini di perla, bianchi, splendidi. Sentivo la pioggia spaccare i vetri delle finestre e piegare i rami degli alberi, era crudele e crudamente malinconica, e non capivo se essa fosse fuori o dentro di me, capisce? Ero un ragazzo, un giovanotto assetato di vita, mai nella mia vita sentii dentro di me soffiare un vento tale da far appassire ogni pensiero e spazzare via mille futili cose…e dopo quella notte non lo sentii mai più. La mia anima era già sulle sue labbra di seta, avrei fatto qualsiasi cosa per toccarla e per sapere se fosse vera o se fosse un riflesso di chissà quale fantasma,o angelo che fosse. Tutto fu perduto, quella notte. Se solo avessi…ma lasciamo stare…a lei non interessano queste cose, lei penserà che sono pazzo…” e abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano diventati colate di lava e lapilli incandescenti, si muovevano come se dovessero afferrare una farfalla. La sua voce era spezzata, spietatamente sincera, spietatamente addolorata. Fece due passi indietro e si toccò il cappello come per salutarmi.
“Perché me l’ha detto?” chiesi. E non mi resi conto di stare piangendo, presa com’ero dal filo rosso della mia domanda. Il vecchio sorrise e si toccò di nuovo il cappello.
“Empatia, mia cara.” rispose con un sorriso stanco “Non c’è legge di natura o legge umana a riguardo. È un fenomeno assai curioso, assai curioso davvero. Una reazione chimica strana e, strano a dirsi, gli alambicchi di questa strana pozione sono gli occhi di chi guarda. E i suoi piangono. Se permette, vorrei chiederle perché piange.”
Sgranai gli occhi e mi asciugai le lacrime con quella domanda in testa.
“Non…non lo so. Mi crede se le dico che non lo so?” dissi, sorridendo e piangendo ancora.
“Certo che le credo, mia cara. E la risposta è: empatia. Significa che lei per un attimo beveva le mie parole e vedeva quel che i miei stanchi occhi vedevano come se fosse venuta fuori dal suo passato. Mi creda, non c’è risposta. E lei piange perché sa che non mi resta nulla, che il mio passato è il mio presente, e che il mio futuro sarà ancora il mio passato, fino alla tomba.”
Detto questo, mi salutò e si incamminò nel senso opposto al mio. Scomparve dopo poco, inghiottito dalla folla. E io non ebbi il coraggio di richiamarlo indietro. La vita riprese a scorrere, e non volendo pensare mi rituffai in essa e ripresi a fare la foglia inghiottita dalla furia del fiume della vita. Ma i pensieri, lo capii subito, scorrevano più veloci della vita. E mi sorpresi di capire che la gente intorno pensava di me che fossi diventata pazza. Io, pazza?
Pazzo è chi non ascolta, pazzo è chi non vive. Sorrisi e andai via. Avevo vissuto abbastanza.

martedì 2 giugno 2009

Lasciami essere felice - Pablo Neruda


Questa volta lasciami
essere felice,
non è successo nulla a nessuno
non sono in nessun luogo,
semplicemente
sono felice
nei quattro angoli
del cuore, camminando,
dormendo o scrivendo.
Che posso farci, sono
felice,
sono più innumerabile
dell'erba
nelle praterie,
sento la pelle come un albero rugoso,
di sotto l'acqua,
sopra gli uccelli,
il mare come un anello
intorno a me,
fatta di pane e pietra la terra
l'aria canta come una chitarra.

mercoledì 6 maggio 2009


SECRETUM

La tua voce vive in me,
nel profondo
con l’urlo del sangue
gioioso, vigile, senza meta
e precipita nell’abisso
dei miei sensi...

Il cuore, ridendo sguaiato,
freme fino a fermarsi
fino a voltarsi indietro
fino a strozzare nell’aria
il mio respiro...

E’ strano...
Non amo...

Non guardo in alto,
non guardo il tuo viso puro
perchè ogni mio sguardo è polvere
è la sabbia di una debole clessidra
che oscilla nel vento...

Ogni soffio è il tuo tocco leggero
e l’anima sale verso il cielo
scende, risale, si ferma
cade divisa come grandine
cade e non ha peso...

Io non ho senso nè distanza
e il tuo aspro sorriso
mi tiene in vita
quando la vita si volta di spalle...

Il tuo sguardo accende domande
strane, folli scintille
tra le mie dita inermi
tremule gocce d’acqua
che scivolano, lascive,
sul freddo vetro di un bicchiere...

E il giorno fugge come un sogno
che ha mille spiegazioni...

Mi siedo, mi chiedo dove sbaglio
e perchè sento rabbia e calore
in quel sangue che corre
e perde corpo e fiato
e non ha nome
se tu non gli dai un nome...

venerdì 1 maggio 2009

Ciò che l'acqua mi diede - #1



Sull'acqua ci sono ricordi che danzano indiavolati, mentre noi non ci accorgiamo della loro presenza, della loro danza, del loro essere dolorosamente vicini alla nostra vita presente.

Ma è tutto ciò che l'acqua ci ha dato, quello che ci aspettava quando eravamo ancora racchiusi nel grembo materno, quello che tornerà sempre e non lascerà mai le sponde del nostro essere, come l'acqua, il mare, un fiume....come la vita....

domenica 19 aprile 2009

FEELING LIKE SALOME'


Thy hair is horrible. It is covered with mire and dust. It is like a crown of thorns placed on thy head. It is like a knot of serpents coiled round thy neck. I love not thy hair . . . . It is thy mouth that I desire, Iokanaan. Thy mouth is like a band of scarlet on a tower of ivory. It is like a pomegranate cut in twain with a knife of ivory. The pomegranate flowers that blossom in the gardens of Tyre, and are redder than roses, are not so red. The red blasts of trumpets that herald the approach of kings, and make afraid the enemy, are not so red. Thy mouth is redder than the feet of those who tread the wine in the wine-press. It is redder than the feet of the doves who inhabit the temples and are fed by the priests. It is redder than the feet of him who cometh from a forest where he hath slain a lion, and seen gilded tigers. Thy mouth is like a branch of coral that fishers have found in the twilight of the sea, the coral that they keep for the kings! . . . It is like the vermilion that the Moahites find in the mines of Moab, the vermilion that the kings take from them. It is like the bow of the King of the Persians, that is painted with vermilion, and is tipped with coral. There is nothing in the world so red as thy mouth . . . . Suffer me to kiss thy mouth.


In questi momenti sento il sangue che ribolle. Nulla mi aveva mai fatto più rabbia e aveva fatto sorgere in me il desiderio di sentire di nuovo le sue labbra sulle mie. Sono impotente, incatenata, come una tigre in gabbia che non smette di ruggire. Maledetta questa gelosia che mi scorre in tutto il corpo come un veleno e non mi fa respirare, mi chiude gli occhi e oscura il mio giudizio e la mia razionalità.

Per quale strano caso del destino ho dimenticato che mi ama, che non vuole altro dalla vita che non sia io, questo stupido essere che ora siede in un angolo con la testa tra le mani e un calore malato e rabbioso che sale dal sangue e gli invade tutto?

Penso a Salomè, come l'ha dipinta Wilde. Capricciosa, incostante, invaghita di un uomo che ama solo Dio e nessun altro. Salomè che danza seminuda davanti a mille occhi esterefatti pur di avere la testa dell'uomo che le ha negato un bacio....

Mi sento così oggi. Ribelle e furente. Che sensazione orrenda! Vorrei essere serena, vorrei ma la gelosia mi trattiene e non mi lascia libera...sia maledetta questa voglia che ho di urlare, piangere, bestemmiare, maledire la causa di questa rabbia assurda! Me la pagherà un giorno, ne sono certa.

Vorrei che tu fossi qui a darmi della stupida e a dirmi che mi ami, amore mio. Io sono una donna. Volubile, stupida, capricciosa e incontentabile. E' anche per questo che mi ami, lo so. E allora amami, dammi della stupida, schiaffeggiami, riportami alla realtà. Ho bisogno solo di te, del tuo corpo, delle tue mani, del tuo sguardo. Dimmi che sono sciocca e che non ho capito nulla, non ti do' torto.

Ma non dimenticartelo

ti amo....


SALOME’

Nuda e arrogante serpe
che oscura il sole
e il giro dei pianeti

col suo biancore argenteo
la Luna mi ha creata
per sua ancella

e il mio viso
dagli occhi di ferro
cerca il tuo cuore

lo sfida
a restare nel petto
a non avvizzire

mentre il mio corpo
quasi giunco
o lingua di fuoco

danza con passo
di tigre rabbiosa
avanza come valanga

arretra
si disperde
si innalza come nebbia...

e sono luce che acceca
il tuo occhio
e disperde i tuoi pensieri

e sono ombra che viene
da lontane oasi
per incantarti...

muovo passi
leggeri, frenetici
sul basalto freddo

su sangue innocente
la musica
mi punge la pelle

mi infiamma i lombi
e le spalle
crepita in me

come tormenta
di neve aspra
mista a vento...

e sono giunco
che piega il collo
ma non si spezza

e sono corrente
che ridesta
il tuo desiderio sopito...

sul fosco oceano
dei fianchi
tremano i veli candidi

prima di cadere in terra
prima di liberare
il mio segreto nascosto...

e come fenice ardente
da me, da me sola
muoio e rinasco

per spargere il tuo sangue
col mio comando
per baciare le tue labbra gelide

che non conoscono
il mio calore:
e da me non aspettarti amore

profeta del deserto
Johanaan!...

mercoledì 15 aprile 2009

29 AGOSTO 2007 - HELLAS


In piedi, le mani appoggiate alla ringhiera smaltata di bianco, sul ponte del traghetto diretto ad Igoumenitsa, circondata dall'odore salato del mare, guardavo l'orizzonte. Pensavo fosse lui a guardare me, nel suo silenzio così buio e schivo, ma non capivo.
Le voci dei miei compagni si sentivano in lontananza, attutite. Potevo sbirciare i loro visi da un oblò incrostato di salsedine. Ridevano, scherzavano, fremavano dalla voglia di arrivare. Era notte fonda, e la luna sembrava piangere e spargere le sue lacrime argentee nella volta del cielo per formare le stelle. In quel momento mi ricordai di Selene. La personificazione di Diana, dea della caccia, quando saliva sul carro della luna e percorreva il cielo, sospinta dal vento, passando su città e villaggi addormentati senza far rumore.
Il vento si fece più forte e chiusi gli occhi per non lasciar entrare la salsedine. Faceva troppo freddo per restare fuori. Sentii sotto i miei piedi il borbottìo del ventre della nave, il contorcersi del motore che bolliva e rallentava la corsa, e vidi un sottile filo di fumo grigiastro levarsi nell'aria e sparire. Tornai in cabina e dormii un sonno strano, leggero, quasi nullo, tentando di non pensare al rollìo dell'oceano che si scatenava.

La sveglia suonò alle 5. Senza pensarci mi alzai e andai verso il portellone che dava sul ponte.
Tra i bagliori rossi e ancora neri dell'alba distinsi una sagoma nera, quasi una donna dormiente.
Quella donna era l'Ellade. Il viaggio era finito. Un giorno era cominciato.

29 AGOSTO, NOTTE/
GRECIA

Ora sì, si vede appena
confusa, in lacrime
nella nebbia
impalpabile
densa, sognante
figlia del fuoco,
dell’atmosfera,
dei segreti
e di amore,
amore sofferente...

E’una mano
che lambisce
all’infinito
pelle, seni,
occhi d’avorio
il mare
bruno di cenere
e pece bollente
nella luce
tagliente
di una lanterna
in alto...

Nella gola
di questa nave
nel legno dipinto
nel ferro
nei tubi
nel fumo
bolle, brucia
il boato
del motore
che infiamma
il mio respiro...

Mi avvicino
mi allontano
e sono sempre
ferma
e tutto
in me
fuori di me
esplode
e varia
nel buffo teatro
dell’assurdo
dietro il sipario
muto
della notte...

E Lei
distesa di terra
scabra e sconvolta
nera e immobile
riposa
nell’alvo della luna
e io, con una mano,
scavo il profilo
dei suoi fianchi
sotto un cielo
straniero
d’ambrosia
che, dolce,
chiama il suo nome:
Hellas, divina...

venerdì 10 aprile 2009

A CURSED NIGHT


La musica nelle orecchie, Evening Falls, di Enya. E le dita che si rincorrono sui tasti, si fermano, tornano indietro, correggono, ricominciano a correre. Forse vogliono illudersi che sfuggiranno al mondo banale fuori della finestra. Forse vogliono che il tempo si fermi,sì, che torni indietro, che riscriva la loro storia e poi torni a tessere la trama di un nuovo giorno. Forse vogliono questo. O metà di tutto questo. Non so cosa vogliono. E non so cosa voglio io. Chiudere gli occhi, in questo momento, basterebbe. Sono le cinque del mattino e sono già sveglia. E’ strano, ma non impossibile.
Per me, il mondo si muove in continuazione, anche quando sono sobria. Figuriamoci quando sono sbronza. Si muove fin troppo, cambia troppo spesso. Tutto scorre...Panta rei...Solo io non cambio. Io sono sempre la stessa, insofferente idiota che aspetta che le passi il mal di mare. Forse io non sono fatta per questo mondo. Questione di affinità. Mi guardo intorno e scopro, indovina cosa?, che tutto cambia. Il cielo non è mai lo stesso, la luna ha mille facce, il sole c’è e non c’è, gli amori finiscono, i ghiacci si sciolgono, i pinguini si estinguono, la gente si riconosce a malapena, e poi muore. Prima o poi morirò anch’io, senza ombra di dubbio. Ma un dubbio ce l’ho ancora: cambierò mai, io? O resterò sempre in piedi, ad aspettare che il mondo si fermi per farmi scendere? Non lo so. Non so ancora cosa voglio. Cosa posso volere? Magari scrivere ancora per molto, molto tempo. Le mie poesie non cambieranno il mondo. Non sono una rivoluzionaria. Non sono Neruda. Magari lo fossi. Avrei meno complessi di inferiorità. Neruda era il poeta dell’amore, della gioia. Non è felice, uno che scrive: Nuda sei semplice come una delle tue mani,/ liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,/ hai linee di luna, strade di mela,/ nuda sei sottile come il grano nudo ? Beh, io non sono esattamente felice. Mi adatto. Almeno, ci provo. Non riesco neanche a far finta di cambiare. Ho il fiatone. Tutto corre troppo veloce. E io ho le gambe corte e sono grassoccia. Rallento, quasi mi fermo, arranco. E resto a guardare.
Fuori piove. Ha il suo fascino, appoggiare la testa al vetro freddo della finestra e sentire il mondo che rallenta anche lui, che respira, che medita. E’ come ascoltare un cuore che batte, che accelera, che alla fine riprende il suo passo. Forse mi sbaglio. Forse, a qualche metro, il mondo è sempre lo stesso. Corre, non guarda in faccia a nessuno, progredisce, sale. Come in quel quadro di Boccioni, La città che sale. Dove c’è un cavallo imbizzarrito che sembra fatto di pioggia, di tante gocce affusolate di colore che vibrano anche se sono immobili. Il miracolo degli artisti. Rendere tutto il contrario di tutto. Rendere mobili, quasi vivi, il colore inerte, quello che vedi nei manifesti pubblicitari, quello della stoffa di un vestito, dell’asfalto, del mare...e magari anche la parola comune, quella sulla bocca di tutti, quella più nascosta, quella dimenticata in qualche libro perchè anche lei arranca per stare al passo col mondo e un giorno finirà per arrendersi. Mi sforzo di capire come si fa un miracolo del genere con le parole. Dev’essere un miracolo difficile. Difficile quanto resuscitare Lazzaro. E io non sono Gesù Cristo. Non voglio essere blasfema. Non so neanche come si fa, del resto. Ubriaca, ho più stronzate da raccontare, suppongo. Sono le cinque e ho fame. Ma il mio bisogno di blaterare è più forte della fame. E allora. Conoscete Munch? Edvard Munch? Quello dell‘ Urlo... Beh, lui sì, che è blasfemo...Dipinse una Madonna nuda, con l’aureola rossa, con una cornice di spermatozoi e un feto in basso a sinistra. Adoro quel quadro. Non riesco ad essere blasfema, ma ammiro chiunque ci riesca, volontariamente o no. I blasfemi non sono cattivi. Solo, danno il giusto peso alle cose. Io non ci riesco. Mi preoccupo troppo del futuro, del Giorno del Giudizio, dei mostri sotto il letto...che ne so...sono una vigliacca, me lo dico ogni mattina. Scrivo poesie e non riesco a pubblicarle perchè non sopporto le critiche.
Sono così. E mi preoccupo di cambiare. Forse non dovrei. Se proprio devo, magari solo un pò. Giusto per provare a vedere se riesco a non sentirlo stretto, questo mondo che sale. Magari ora chiudo gli occhi, esprimo un desiderio e li riapro. Forse cambia qualcosa, forse no. Un’altra volta, magari. La musica è cambiata, già da un pò. Sempre Enya, Watermark. Stasera sono triste, ho un pò di ricordi da mettere da parte, in archivio, in una scatola di cartone che un giorno riaprirò. Darò una sbirciata a quello che c’è dentro e poi la richiuderò. Magari qualche profumo, qualche brivido, resterà nell’aria e mi cullerà prima di dormire. Il giorno dopo sarà svanito. Ma non del tutto. Tutto cambia, l’ho già detto. Ma nulla muore del tutto.
Munch, sempre lui, diceva:
Dal mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori e io sarò dentro di loro: questa è l'eternità.
Accidenti. Qualcuno mi ha detto che l’alcol cura la tristezza.

Cazzate.

domenica 5 aprile 2009

DONNE DANNATE


La prima mossa, a questo punto, è fare ammenda per le proprie colpe....

Eveline lo pensò per uno stupido, accecante attimo.

Davanti allo specchio polveroso, cercò di capire dove aveva sbagliato, guardando fisso negli occhi la propria immagine, storta e disfatta dalla luce giallastra del lampadario.
Non era bello piangere davanti allo specchio. Non era giusto. Era solo un modo per prendere tempo. Nessuno le lasciava tempo per pensare. Perchè una puttana, nonostante le chiacchiere dei clienti, sa pensare. A cose poco piacevoli, al passato, sempre che ne abbia uno per cui piangere, uno a cui chiedere certezze per il futuro.
Sempre che ci sia, un futuro.
Non era bella, Eveline. Non lo era mai stata. O meglio, nessuno glielo aveva mai detto, e lei stessa non poteva pensarla diversamente, guardandosi allo specchio in quella notte umida e affollata di pensieri e facce sconosciute.
Sembrava un gatto selvatico. Nascondeva le unghie affilate sotto il pelo che faceva scintille. Era magra e maligna. Ma non era colpa sua. E, forse, non era colpa di nessuno.
Eveline non volle più guardarsi. Fissò i suoi occhi stanchi, rossi di pianto, nel vuoto. Tutto era vuoto, quella notte. Lei era vuota, nel cuore, nella mente. Un arnese inutile, un ingranaggio rotto....
Nei suoi occhi sottili e pungenti, del neutro colore della nebbia, si celava uno sguardo infelice che attraeva poco gli uomini. Anche i suoi capelli rossi, ispidi, che le avvolgevano confusamente le spalle come un viluppo di rovi, ispiravano poca simpatia.

Troppe volte aveva desiderato tagliarli con qualche secco colpo di forbice.
Sarebbe stato come recidere un cordone ombelicale. Fare a pezzi impietosamente il proprio passato.

Le altre ragazze le dicevano sempre che somigliava a sua madre. Una di loro, Maurice, una bella senegalese dagli occhi verdi, un giorno le aveva mostrato una foto.
Una ragazza dai capelli rossi. Di un rosso vivo, che risaltava prepotentemente contro la sua pelle d’avorio e gli occhi scurissimi e insolenti.
Maurice le aveva detto, con un sorriso spento, che quella era sua madre. La madre di Eveline. La femme fatàle, la Vampira dagli occhi bruni come la terra e le labbra scarlatte come venissero direttamente dalla bocca dell’Inferno.
Eveline l’aveva guardata per un pò, incredula. Poi si era accesa una sigaretta e si era alzata in fretta, sbuffando il fumo nell’atmosfera come se stesse rifiutando l’aria che respirava.
-‘Fanculo...- le aveva sussurrato, con la sua voce roca e sgraziata, mentre si allontanava.
Maurice, paziente, l’aveva guardata mentre andava via e le aveva rivolto uno dei suoi sorrisi più sinceri, scuotendo lentamente la testa.

Quella notte, Eveline non dormì. Le prime luci dell’alba la avvolsero in un abbraccio sbiadito e ipocrita, mentre faceva girare all’infinito un mozzicone spento di sigaretta tra le dita. All’infinito, ogni battito, ogni cellula del suo corpo ruotava sul semplice perno di quel gesto arcano, quella sapiente danza delle sue mani, delle vene, dei muscoli. Impercettibile e tremendamente vitale, come il tremito sottile delle gemme, nei rami alti di un albero.

E così, sua madre aveva i capelli rossi. Eveline percorse la stanza a grandi passi, senza far rumore. Si fermò, poggiò una mano dalle lunghe, affusolate dita sul bracciolo di un divano di un rosso slavato in un angolo.
Silenzio.
Gli unici suoni che percorrevano l’aria immobile erano il suo respiro tiepido e il gemito furioso del vento autunnale.
Una ruga solcò la fronte di Eveline, mentre il suo sguardo si inaspriva pian piano.
Quei maledetti capelli ed un mestiere schifoso era tutto ciò che doveva a sua madre. Gran bella eredità, davvero.
Le altre ragazze dicevano che era morta troppo presto.
Stronzate, pensò Eveline con ferocia. Tanto, a lei non importava nulla. Di sua madre o della compassione delle altre. La soluzione era semplice: non l’aveva mai conosciuta, non l’avrebbe mai potuta amare.
Era come diceva sempre Madàme:
“Una puttana figlia di una puttana non ha radici. Rotola via come la sabbia col vento.”
Madàme sapeva ciò che diceva. Non c’era altro da dire.
Lei aveva sperimentato ogni cosa. Non aveva più dubbi su come andasse la vita, su come partisse e come andasse a finire. Per lei la vita era un film già visto. Un dramma tipico, noioso. E lei era lì per far divertire le sue ragazze e i suoi clienti. Come una veggente da quattro soldi, Madàme vendeva certezze e antidoti contro la noia, la tristezza della vita della gente.
Tutte loro ne avevano visti, di uomini annoiati, depressi, desiderosi di trasgredire, di “rubare il fuoco”, come diceva Madàme. Loro, le ragazze, dalla prima all’ultima, sapevano. Conoscevano le frustrazioni della gente perchè conoscevano le loro. Eveline, nei momenti bui, si ripeteva che scopare con qualcuno, in fondo, era come guardarsi allo specchio e non riconoscersi se non dopo essersi guardati negli occhi, dopo aver scoperto, dietro quegli occhi, la stessa anima, le stesse ferite, le stesse cicatrici.

Il moccioso aveva smesso di piangere da un pezzo. Avvolto in una coperta scura, dormiva sereno, inconsapevole.
Non doveva lottare col freddo di un marciapiede, non aveva mai provato il morboso disgusto che Eveline provava ogni sera, nel sentire mani sconosciute sul suo corpo ancora giovane e già vecchio per il suo mestiere.
Per un attimo, la madre odiò il figlio che aveva partorito con tanto dolore, come se fosse una maledizione del cielo, di un Dio vago e severo. Se poi Dio esisteva davvero...o se non era finocchio. Di sicuro, però, Dio non l’aveva mai guardata bene. Non era importante. In fondo, lei era solo una puttana. Una puttana senza un’alternativa.
Il moccioso dormiva ancora. Non sentiva su di sè il peso bruciante e sgradevole di quell’odio senza senso. Dormiva un sonno senza incubi nè angosce.
Questo era il senso del suo odio. Non era mai passato un giorno senza che lei avesse incubi orrendi che la tenevano sveglia, vigile, in attesa. Non aveva mai dormito, come invece quel moccioso, un sonno senza rimpianti. Perchè, si sa, Eveline ne aveva di rimpianti, e il suo buonsenso e la sua stupidità non le permettevano di sognare.
Non sognava. Non andava lontano. Il suo posto era lì, in quell’angolo d’inferno, bruciante d’estate, gelido e lugubre d’inverno, tra le carcasse sventrate delle macchine abbandonate e i corpi acerbi e contorti degli ulivi che tendevano i loro artigli nodosi e scuri nel cielo grigio.
Eveline smise di guardarlo. Non aveva radici. Non aveva nulla.
Solo Madàme e le ragazze, ma questo non si poteva definire un affetto viscerale. E poi c’era quel maledetto moccioso. Spuntato da chissà dove. Quando le chiedevano chi era il padre di quella creaturina così piccola, lei scrollava le spalle e tornava nel suo angolo. E si sentiva sempre più sola perchè sapeva e non voleva che altri sapessero.
Madàme diceva sempre: “Le bugie ci rendono soli.”
Non aveva mai avuto più ragione nel dirlo. Eveline sapeva bene anche questo.

Da quelle parti le ragazze la chiamavano Eve.
Dicevano che con quel nome attirava i clienti. Rendeva l’idea di qualcosa di seducente, di eccitante.
“Eveline dà l’idea di una suora”, dicevano tutte “E tu non vuoi fare la suora, no?” e ridevano, complici e maligne. E lei annuiva, distratta, mentre accendeva un’altra sigaretta. Aspettava, Eve. E nessuno, a parte lei, sapeva cosa.
Non era bella. Non lo era mai stata.
Ma Madàme le aveva insegnato a fare l’amore come se danzasse, con leggerezza, con passione infinita ed inebriante. Era un’allieva diligente, Eve, docile come nessuna. Quella era la sua vita, e lei lo sapeva. Non c’era nient’altro, dopo quegli alberi e quel cielo fuligginoso. Tutto lì. La sua casa, la sua famiglia, tutti gli uomini che voleva...e anche quelli che non voleva.

Madàme diceva che in amore bisognava sempre fingere un pò.
“L’importante è ingraziarsi i clienti, dirgli sempre di ‘si’, e loro torneranno”, diceva alle più giovani, quelle più timide e schive che sfidavano le veterane con sguardi di fuoco. Madàme insegnava loro a segnare il territorio con pazienza e ferocia, come lupi delle steppe.
Quando le guardava venire avanti, con i loro scolli vertiginosi, la pelle abbronzata e le labbra rosso sangue, Eve nascondeva quasi sempre un sorrisetto spietato.
Sapeva molto di più di quanto loro potessero sapere.
Sapeva per certo, ad esempio, che gli uomini volevano una cosa sola da una puttana: che facesse ciò che doveva senza parlare. E lei, in silenzio, stregava gli uomini con il suo corpo morbido, con la sua pelle pura che si intravedeva appena al chiarore torbido e ambiguo di un lampione.
Ma la sua magia era tutta racchiusa nelle mani.
In esse si rigenerava il segreto silenzioso che passa da pelle a pelle nella rabbia, nella grazia, nel calore del sesso. Nessuno poteva capire come facesse. Era una scienza esatta, la sua, un’alchimia, un equilibrio perfetto e diabolico, divino e profano insieme. Quelle dita affusolate sembravano non avere peso. Sfioravano migliaia di volti, sfiancavano migliaia di spalle, dipingevano il desiderio su migliaia di corpi e migliaia di anime. Sempre con la stessa, insolita dolcezza.
C’era qualcosa di sacro, di sublime, nel suo tocco. Le sue dita non facevano fatica, accarezzavano lineamenti sconosciuti per attimi infiniti cercando fiducia, cercando amore. Quello che quelle bellissime dita stringevano, il giorno seguente, era solo fumo. E un misero compenso per la loro magia così bella, così pura, così sacra.
Ma non le importava, almeno per un paio d’ore.
Si accendeva una sigaretta, di quelle lunghe e sottili, un regalo di Madàme, e non ci pensava più. Non poteva pensarci.
Era di nuovo a caccia, di nuovo all’erta. Affamata come un lupo, docile e triste, come un agnello che sa che dovrà essere sacrificato, ma non sa il perchè.

Eve viveva di ricordi. Pochi tanto da contarli sulle dita di una mano. Ed ogni ricordo pesava come un macigno sulla sua coscienza. Ogni ricordo era un errore, un incidente di percorso, un motivo per rattristarsi.
Piangeva, Eve, solo quando sapeva di essere sola. E non aveva il coraggio di ricominciare.
Camminava avanti e indietro su quel marciapiede schifoso per semplice forza di inerzia.
La sua vita era tutta lì.
Racchiusa nella pelle nera e scabra dell’asfalto, nella luce malata di un lampione nel buio della periferia, nelle macchine che si fermavano davanti a lei, nelle mani senza volto che si sporgevano dai finestrini per consegnarle la sua ricompensa, in chi le chiedeva ciò che lei non aveva mai avuto il coraggio di dare. L’amore, il corpo, la fede.
La sua vita era asfalto. Era luce morente. Sesso. Silenzio.
Tutto lì. La vita le passava davanti, e brillava per qualche istante nei fari gialli delle macchine che non si fermavano nel suo angolo di inferno.
Era uno sfavillìo attraente. Una splendida via di fuga. Sarebbe stato semplice farsi portare via da una promessa così dolce. Ma lei, semplicemente, non la guardava. Non se ne sentiva degna.
Eppure, Eve sapeva. Sapeva tutto. Dell’altra vita, del bel mondo a qualche chilometro di lì, dove tutti andavano, da dove tutti, prima o poi, scappavano.
Sapeva che gli uomini non si accontentano mai di quello che hanno. Neanche di qualcosa di vicino alla perfezione.
C’era un pittore, diceva un giorno Madàme con un sorriso amaro, che disse, alla fine della sua vita: “Prima o poi, bruciamo tutto ciò che abbiamo adorato.” Madame ci credeva, aveva fede.
Eve aveva imparato a crederci. Il tempo le aveva insegnato molte cose e aveva spento la sua innata curiosità. Come sempre succede, però, sotto la cenere covava sempre un fuoco.
Sottile, malaticcio, moribondo.
Ma pur sempre fuoco.

Quando poteva, quando nessuno, neanche lei, la guardava vivere, Eve scriveva.
Qualche verso, con le sue dita di cera, su un quadernetto con la copertina rigida e impolverata. Niente di importante.
Non scriveva d’amore. Da quelle parti, l’amore non era mai arrivato sul serio. Forse quella volta, d’estate... ci era arrivata tanto vicina...e poi più nulla, come sempre...
Eve si mordeva un labbro ogni volta che ci pensava. Non ne parlava neanche a sè stessa. Perchè scriverlo? Sarebbe stato come morire dentro, ancora una volta...

Smetteva di pensare, a volte, nella calma della sera. E quando lo faceva, scriveva della luna.
Eve pensava che al mondo ci fossero tanti, troppi segreti. E altrettante magie. E una di queste era senza dubbio quella luna di cristallo lassù, nel cielo di velluto, nero, senza misura. Da piccola, cercava di afferrarla, stringerla tra le sue piccole dita. Inutile.
Era troppo lontana. E quando le dissero che l’uomo era arrivato sulla luna, molti e molti anni prima, allora lei capì.
La luna non era lontana da tutti. Era lontana da lei. Era lei che non capiva, che non poteva capire, come arrivare a toccarla, come afferrarla e stringerla per non lasciarla andar via.

Madàme diceva che il loro destino era sotto la luna. Lo diceva sempre nelle notti d’estate, quando il vento tiepido soffiava sulle loro ferite, quando era più facile guardare le stelle che splendevano in alto e il cielo non sembrava così distante. E dai suoi occhioni neri faceva capolino qualche lucida lacrima, che le scioglieva il rimmel e le rigava il viso, le scendeva sul corpetto scuro, troppo stretto per i suoi seni floridi e i fianchi larghi, impastavano la polvere e la cenere del suo sigaro. Madàme piangeva di rado. E quando succedeva, si arrabbiava con sè stessa, si asciugava le lacrime e rimaneva in disparte per un bel pezzo.
Diceva di sentirsi piccola di fronte a quella regina d’argento, lei, Madàme, che aveva studiato e aveva insegnato ad Eve tutto ciò che sapeva. Le aveva insegnato ad allacciarsi le scarpe, a tagliarsi i capelli da sola, a sedurre gli uomini e a lasciarli senza fiato, in balìa delle sue mani. Ebbene lei, Madàme, diceva alle sue ragazze che lei, quella pallidissima apparizione che le sovrastava, lei era la vera Madàme, il capo, e non le perdeva mai di vista, ammiccando con i suoi raggi sulle loro schiene nude quando intrattenevano i clienti. Eve ci credeva. Aveva una vista perfetta, la luna. E la giudicava in ogni momento, con il suo bagliore quasi feroce, quasi sensuale.

Guardava la luna, Eve, e la vedeva divina, perfetta come lei non avrebbe mai potuto essere. E chinava il capo come davanti alla Madonna, in un tempio di ferro e asfalto.
In silenzio, con la penna tra le dita, pregava la luna ogni notte, finchè essa non scompariva del tutto, nel rogo ardente del giorno.

Seduta nell’ombra
ti osservo specchiarti nel mare
che rabbioso soffia via
la tua immagine, sfumandola
tra mille ruscelli di spuma

Si bloccava, leggeva, scostava una ciocca ribelle che le solleticava la nuca. Sentiva che le mancava qualcosa. Le mancava la speranza. Nel suo angolo di marciapiede, la sua culla fredda e perversa, brillava di tanto in tanto la luce dei fanali delle macchine, che quasi mai passavano di lì per caso. Ma non ci arrivava la speranza.
Tra le lenzuola umide, quando l’Alba feriva con i suoi artigli dorati il pallore delle sue spalle, Eve l’aspettava senza muoversi. Faceva respiri profondi e chiudeva gli occhi. Andava quasi in apnea. Poteva dimenticarsi di respirare. Di vivere. Aspettava il più grande dei miracoli, oppure la più grande delle sconfitte? Questo non lo sapeva neanche lei. Ma aspettava. E il giorno passava sul suo corpo, guardingo come un’ombra. E lei aspettava.
Quando poteva, quando nessuno, neanche lei, la guardava vivere, Eve scriveva.
Scriveva per attirare la speranza, come si attira un uomo per un misero compenso e una notte d’amore in macchina.
Scriveva per tirarla a sè e viverla in fretta, senza voltarsi indietro.
Scriveva per scappare, scappare da tutto, anche da sè stessa.
Ma dalla luna no. Dalla luna, Eve non poteva, non voleva, scappare.