domenica 5 aprile 2009

DONNE DANNATE


La prima mossa, a questo punto, è fare ammenda per le proprie colpe....

Eveline lo pensò per uno stupido, accecante attimo.

Davanti allo specchio polveroso, cercò di capire dove aveva sbagliato, guardando fisso negli occhi la propria immagine, storta e disfatta dalla luce giallastra del lampadario.
Non era bello piangere davanti allo specchio. Non era giusto. Era solo un modo per prendere tempo. Nessuno le lasciava tempo per pensare. Perchè una puttana, nonostante le chiacchiere dei clienti, sa pensare. A cose poco piacevoli, al passato, sempre che ne abbia uno per cui piangere, uno a cui chiedere certezze per il futuro.
Sempre che ci sia, un futuro.
Non era bella, Eveline. Non lo era mai stata. O meglio, nessuno glielo aveva mai detto, e lei stessa non poteva pensarla diversamente, guardandosi allo specchio in quella notte umida e affollata di pensieri e facce sconosciute.
Sembrava un gatto selvatico. Nascondeva le unghie affilate sotto il pelo che faceva scintille. Era magra e maligna. Ma non era colpa sua. E, forse, non era colpa di nessuno.
Eveline non volle più guardarsi. Fissò i suoi occhi stanchi, rossi di pianto, nel vuoto. Tutto era vuoto, quella notte. Lei era vuota, nel cuore, nella mente. Un arnese inutile, un ingranaggio rotto....
Nei suoi occhi sottili e pungenti, del neutro colore della nebbia, si celava uno sguardo infelice che attraeva poco gli uomini. Anche i suoi capelli rossi, ispidi, che le avvolgevano confusamente le spalle come un viluppo di rovi, ispiravano poca simpatia.

Troppe volte aveva desiderato tagliarli con qualche secco colpo di forbice.
Sarebbe stato come recidere un cordone ombelicale. Fare a pezzi impietosamente il proprio passato.

Le altre ragazze le dicevano sempre che somigliava a sua madre. Una di loro, Maurice, una bella senegalese dagli occhi verdi, un giorno le aveva mostrato una foto.
Una ragazza dai capelli rossi. Di un rosso vivo, che risaltava prepotentemente contro la sua pelle d’avorio e gli occhi scurissimi e insolenti.
Maurice le aveva detto, con un sorriso spento, che quella era sua madre. La madre di Eveline. La femme fatàle, la Vampira dagli occhi bruni come la terra e le labbra scarlatte come venissero direttamente dalla bocca dell’Inferno.
Eveline l’aveva guardata per un pò, incredula. Poi si era accesa una sigaretta e si era alzata in fretta, sbuffando il fumo nell’atmosfera come se stesse rifiutando l’aria che respirava.
-‘Fanculo...- le aveva sussurrato, con la sua voce roca e sgraziata, mentre si allontanava.
Maurice, paziente, l’aveva guardata mentre andava via e le aveva rivolto uno dei suoi sorrisi più sinceri, scuotendo lentamente la testa.

Quella notte, Eveline non dormì. Le prime luci dell’alba la avvolsero in un abbraccio sbiadito e ipocrita, mentre faceva girare all’infinito un mozzicone spento di sigaretta tra le dita. All’infinito, ogni battito, ogni cellula del suo corpo ruotava sul semplice perno di quel gesto arcano, quella sapiente danza delle sue mani, delle vene, dei muscoli. Impercettibile e tremendamente vitale, come il tremito sottile delle gemme, nei rami alti di un albero.

E così, sua madre aveva i capelli rossi. Eveline percorse la stanza a grandi passi, senza far rumore. Si fermò, poggiò una mano dalle lunghe, affusolate dita sul bracciolo di un divano di un rosso slavato in un angolo.
Silenzio.
Gli unici suoni che percorrevano l’aria immobile erano il suo respiro tiepido e il gemito furioso del vento autunnale.
Una ruga solcò la fronte di Eveline, mentre il suo sguardo si inaspriva pian piano.
Quei maledetti capelli ed un mestiere schifoso era tutto ciò che doveva a sua madre. Gran bella eredità, davvero.
Le altre ragazze dicevano che era morta troppo presto.
Stronzate, pensò Eveline con ferocia. Tanto, a lei non importava nulla. Di sua madre o della compassione delle altre. La soluzione era semplice: non l’aveva mai conosciuta, non l’avrebbe mai potuta amare.
Era come diceva sempre Madàme:
“Una puttana figlia di una puttana non ha radici. Rotola via come la sabbia col vento.”
Madàme sapeva ciò che diceva. Non c’era altro da dire.
Lei aveva sperimentato ogni cosa. Non aveva più dubbi su come andasse la vita, su come partisse e come andasse a finire. Per lei la vita era un film già visto. Un dramma tipico, noioso. E lei era lì per far divertire le sue ragazze e i suoi clienti. Come una veggente da quattro soldi, Madàme vendeva certezze e antidoti contro la noia, la tristezza della vita della gente.
Tutte loro ne avevano visti, di uomini annoiati, depressi, desiderosi di trasgredire, di “rubare il fuoco”, come diceva Madàme. Loro, le ragazze, dalla prima all’ultima, sapevano. Conoscevano le frustrazioni della gente perchè conoscevano le loro. Eveline, nei momenti bui, si ripeteva che scopare con qualcuno, in fondo, era come guardarsi allo specchio e non riconoscersi se non dopo essersi guardati negli occhi, dopo aver scoperto, dietro quegli occhi, la stessa anima, le stesse ferite, le stesse cicatrici.

Il moccioso aveva smesso di piangere da un pezzo. Avvolto in una coperta scura, dormiva sereno, inconsapevole.
Non doveva lottare col freddo di un marciapiede, non aveva mai provato il morboso disgusto che Eveline provava ogni sera, nel sentire mani sconosciute sul suo corpo ancora giovane e già vecchio per il suo mestiere.
Per un attimo, la madre odiò il figlio che aveva partorito con tanto dolore, come se fosse una maledizione del cielo, di un Dio vago e severo. Se poi Dio esisteva davvero...o se non era finocchio. Di sicuro, però, Dio non l’aveva mai guardata bene. Non era importante. In fondo, lei era solo una puttana. Una puttana senza un’alternativa.
Il moccioso dormiva ancora. Non sentiva su di sè il peso bruciante e sgradevole di quell’odio senza senso. Dormiva un sonno senza incubi nè angosce.
Questo era il senso del suo odio. Non era mai passato un giorno senza che lei avesse incubi orrendi che la tenevano sveglia, vigile, in attesa. Non aveva mai dormito, come invece quel moccioso, un sonno senza rimpianti. Perchè, si sa, Eveline ne aveva di rimpianti, e il suo buonsenso e la sua stupidità non le permettevano di sognare.
Non sognava. Non andava lontano. Il suo posto era lì, in quell’angolo d’inferno, bruciante d’estate, gelido e lugubre d’inverno, tra le carcasse sventrate delle macchine abbandonate e i corpi acerbi e contorti degli ulivi che tendevano i loro artigli nodosi e scuri nel cielo grigio.
Eveline smise di guardarlo. Non aveva radici. Non aveva nulla.
Solo Madàme e le ragazze, ma questo non si poteva definire un affetto viscerale. E poi c’era quel maledetto moccioso. Spuntato da chissà dove. Quando le chiedevano chi era il padre di quella creaturina così piccola, lei scrollava le spalle e tornava nel suo angolo. E si sentiva sempre più sola perchè sapeva e non voleva che altri sapessero.
Madàme diceva sempre: “Le bugie ci rendono soli.”
Non aveva mai avuto più ragione nel dirlo. Eveline sapeva bene anche questo.

Da quelle parti le ragazze la chiamavano Eve.
Dicevano che con quel nome attirava i clienti. Rendeva l’idea di qualcosa di seducente, di eccitante.
“Eveline dà l’idea di una suora”, dicevano tutte “E tu non vuoi fare la suora, no?” e ridevano, complici e maligne. E lei annuiva, distratta, mentre accendeva un’altra sigaretta. Aspettava, Eve. E nessuno, a parte lei, sapeva cosa.
Non era bella. Non lo era mai stata.
Ma Madàme le aveva insegnato a fare l’amore come se danzasse, con leggerezza, con passione infinita ed inebriante. Era un’allieva diligente, Eve, docile come nessuna. Quella era la sua vita, e lei lo sapeva. Non c’era nient’altro, dopo quegli alberi e quel cielo fuligginoso. Tutto lì. La sua casa, la sua famiglia, tutti gli uomini che voleva...e anche quelli che non voleva.

Madàme diceva che in amore bisognava sempre fingere un pò.
“L’importante è ingraziarsi i clienti, dirgli sempre di ‘si’, e loro torneranno”, diceva alle più giovani, quelle più timide e schive che sfidavano le veterane con sguardi di fuoco. Madàme insegnava loro a segnare il territorio con pazienza e ferocia, come lupi delle steppe.
Quando le guardava venire avanti, con i loro scolli vertiginosi, la pelle abbronzata e le labbra rosso sangue, Eve nascondeva quasi sempre un sorrisetto spietato.
Sapeva molto di più di quanto loro potessero sapere.
Sapeva per certo, ad esempio, che gli uomini volevano una cosa sola da una puttana: che facesse ciò che doveva senza parlare. E lei, in silenzio, stregava gli uomini con il suo corpo morbido, con la sua pelle pura che si intravedeva appena al chiarore torbido e ambiguo di un lampione.
Ma la sua magia era tutta racchiusa nelle mani.
In esse si rigenerava il segreto silenzioso che passa da pelle a pelle nella rabbia, nella grazia, nel calore del sesso. Nessuno poteva capire come facesse. Era una scienza esatta, la sua, un’alchimia, un equilibrio perfetto e diabolico, divino e profano insieme. Quelle dita affusolate sembravano non avere peso. Sfioravano migliaia di volti, sfiancavano migliaia di spalle, dipingevano il desiderio su migliaia di corpi e migliaia di anime. Sempre con la stessa, insolita dolcezza.
C’era qualcosa di sacro, di sublime, nel suo tocco. Le sue dita non facevano fatica, accarezzavano lineamenti sconosciuti per attimi infiniti cercando fiducia, cercando amore. Quello che quelle bellissime dita stringevano, il giorno seguente, era solo fumo. E un misero compenso per la loro magia così bella, così pura, così sacra.
Ma non le importava, almeno per un paio d’ore.
Si accendeva una sigaretta, di quelle lunghe e sottili, un regalo di Madàme, e non ci pensava più. Non poteva pensarci.
Era di nuovo a caccia, di nuovo all’erta. Affamata come un lupo, docile e triste, come un agnello che sa che dovrà essere sacrificato, ma non sa il perchè.

Eve viveva di ricordi. Pochi tanto da contarli sulle dita di una mano. Ed ogni ricordo pesava come un macigno sulla sua coscienza. Ogni ricordo era un errore, un incidente di percorso, un motivo per rattristarsi.
Piangeva, Eve, solo quando sapeva di essere sola. E non aveva il coraggio di ricominciare.
Camminava avanti e indietro su quel marciapiede schifoso per semplice forza di inerzia.
La sua vita era tutta lì.
Racchiusa nella pelle nera e scabra dell’asfalto, nella luce malata di un lampione nel buio della periferia, nelle macchine che si fermavano davanti a lei, nelle mani senza volto che si sporgevano dai finestrini per consegnarle la sua ricompensa, in chi le chiedeva ciò che lei non aveva mai avuto il coraggio di dare. L’amore, il corpo, la fede.
La sua vita era asfalto. Era luce morente. Sesso. Silenzio.
Tutto lì. La vita le passava davanti, e brillava per qualche istante nei fari gialli delle macchine che non si fermavano nel suo angolo di inferno.
Era uno sfavillìo attraente. Una splendida via di fuga. Sarebbe stato semplice farsi portare via da una promessa così dolce. Ma lei, semplicemente, non la guardava. Non se ne sentiva degna.
Eppure, Eve sapeva. Sapeva tutto. Dell’altra vita, del bel mondo a qualche chilometro di lì, dove tutti andavano, da dove tutti, prima o poi, scappavano.
Sapeva che gli uomini non si accontentano mai di quello che hanno. Neanche di qualcosa di vicino alla perfezione.
C’era un pittore, diceva un giorno Madàme con un sorriso amaro, che disse, alla fine della sua vita: “Prima o poi, bruciamo tutto ciò che abbiamo adorato.” Madame ci credeva, aveva fede.
Eve aveva imparato a crederci. Il tempo le aveva insegnato molte cose e aveva spento la sua innata curiosità. Come sempre succede, però, sotto la cenere covava sempre un fuoco.
Sottile, malaticcio, moribondo.
Ma pur sempre fuoco.

Quando poteva, quando nessuno, neanche lei, la guardava vivere, Eve scriveva.
Qualche verso, con le sue dita di cera, su un quadernetto con la copertina rigida e impolverata. Niente di importante.
Non scriveva d’amore. Da quelle parti, l’amore non era mai arrivato sul serio. Forse quella volta, d’estate... ci era arrivata tanto vicina...e poi più nulla, come sempre...
Eve si mordeva un labbro ogni volta che ci pensava. Non ne parlava neanche a sè stessa. Perchè scriverlo? Sarebbe stato come morire dentro, ancora una volta...

Smetteva di pensare, a volte, nella calma della sera. E quando lo faceva, scriveva della luna.
Eve pensava che al mondo ci fossero tanti, troppi segreti. E altrettante magie. E una di queste era senza dubbio quella luna di cristallo lassù, nel cielo di velluto, nero, senza misura. Da piccola, cercava di afferrarla, stringerla tra le sue piccole dita. Inutile.
Era troppo lontana. E quando le dissero che l’uomo era arrivato sulla luna, molti e molti anni prima, allora lei capì.
La luna non era lontana da tutti. Era lontana da lei. Era lei che non capiva, che non poteva capire, come arrivare a toccarla, come afferrarla e stringerla per non lasciarla andar via.

Madàme diceva che il loro destino era sotto la luna. Lo diceva sempre nelle notti d’estate, quando il vento tiepido soffiava sulle loro ferite, quando era più facile guardare le stelle che splendevano in alto e il cielo non sembrava così distante. E dai suoi occhioni neri faceva capolino qualche lucida lacrima, che le scioglieva il rimmel e le rigava il viso, le scendeva sul corpetto scuro, troppo stretto per i suoi seni floridi e i fianchi larghi, impastavano la polvere e la cenere del suo sigaro. Madàme piangeva di rado. E quando succedeva, si arrabbiava con sè stessa, si asciugava le lacrime e rimaneva in disparte per un bel pezzo.
Diceva di sentirsi piccola di fronte a quella regina d’argento, lei, Madàme, che aveva studiato e aveva insegnato ad Eve tutto ciò che sapeva. Le aveva insegnato ad allacciarsi le scarpe, a tagliarsi i capelli da sola, a sedurre gli uomini e a lasciarli senza fiato, in balìa delle sue mani. Ebbene lei, Madàme, diceva alle sue ragazze che lei, quella pallidissima apparizione che le sovrastava, lei era la vera Madàme, il capo, e non le perdeva mai di vista, ammiccando con i suoi raggi sulle loro schiene nude quando intrattenevano i clienti. Eve ci credeva. Aveva una vista perfetta, la luna. E la giudicava in ogni momento, con il suo bagliore quasi feroce, quasi sensuale.

Guardava la luna, Eve, e la vedeva divina, perfetta come lei non avrebbe mai potuto essere. E chinava il capo come davanti alla Madonna, in un tempio di ferro e asfalto.
In silenzio, con la penna tra le dita, pregava la luna ogni notte, finchè essa non scompariva del tutto, nel rogo ardente del giorno.

Seduta nell’ombra
ti osservo specchiarti nel mare
che rabbioso soffia via
la tua immagine, sfumandola
tra mille ruscelli di spuma

Si bloccava, leggeva, scostava una ciocca ribelle che le solleticava la nuca. Sentiva che le mancava qualcosa. Le mancava la speranza. Nel suo angolo di marciapiede, la sua culla fredda e perversa, brillava di tanto in tanto la luce dei fanali delle macchine, che quasi mai passavano di lì per caso. Ma non ci arrivava la speranza.
Tra le lenzuola umide, quando l’Alba feriva con i suoi artigli dorati il pallore delle sue spalle, Eve l’aspettava senza muoversi. Faceva respiri profondi e chiudeva gli occhi. Andava quasi in apnea. Poteva dimenticarsi di respirare. Di vivere. Aspettava il più grande dei miracoli, oppure la più grande delle sconfitte? Questo non lo sapeva neanche lei. Ma aspettava. E il giorno passava sul suo corpo, guardingo come un’ombra. E lei aspettava.
Quando poteva, quando nessuno, neanche lei, la guardava vivere, Eve scriveva.
Scriveva per attirare la speranza, come si attira un uomo per un misero compenso e una notte d’amore in macchina.
Scriveva per tirarla a sè e viverla in fretta, senza voltarsi indietro.
Scriveva per scappare, scappare da tutto, anche da sè stessa.
Ma dalla luna no. Dalla luna, Eve non poteva, non voleva, scappare.

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