venerdì 20 maggio 2011

Primi incontri - A. Tarkovskij




“Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e – Dio mio! – tu eri mia.
Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tu svelò
il proprio nuovo significato: zar.
Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…
Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.”


domenica 15 maggio 2011

La figlia del Diavolo



Nonno Miklòs era arrivato in città con le sue sorelle Margit, di dodici anni più grande di lui, e Erszebeth, che veniva affettuosamente chiamata Betha.
All'epoca, il nonno aveva circa sette anni, Margit ne aveva diciannove, mentre Betha ne aveva solo tre.

Margit aveva la testa sulle spalle, voleva lavorare alla stregua di un uomo. Non le interessava la fatica. Aveva braccia e gambe ben tornite, muscolose, piene di nervi; il viso sano e la fronte alta, i capelli nerissimi racchiusi in una treccia sghemba, un dente d'argento e labbra piene. Ma ciò che più colpiva di Margit era il suo sguardo: aveva occhi inquieti, di un nero profondo, e ciglia lunghe e sognanti. Il suo sguardo pesava più di un pugno nello stomaco. Aveva l'abitudine di tacere - diceva mio nonno - quando gli altri sprecavano il fiato. Parlava poco ma quel che diceva era sempre importante. Teneva una croce di legno sul petto, diceva che le teneva compagnia, ma quando le si chiedeva quale fosse il senso di una tale affermazione, essa scuoteva il capo e tornava alle sue faccende. Gli uomini della tribù e quelli della città la amavano ma la temevano, perchè pensava e agiva da uomo. Non si sposò mai, morì non troppo vecchia. Le era appena spuntata la prima ruga, sulla fronte. Essa la rendeva ancora più seria e severa, ma i suoi occhi continuavano ad ardere di un fuoco bizzarro, chiassoso, giovane.

Betha somigliava molto a Margit. Era un piccolo demonietto scarmigliato, coi capelli fulvi raccolti in trecce fermate da nastri rossi. Da piccola vestiva sempre di bianco, e la sua pelle era straordinariamente abbronzata. Ciò bastava per catalogarla come "bizzarra".
Aveva un piccolo flauto che suonava sempre, seduta davanti al cancello del podere. Suonava e guardava l'orizzonte, lo splendido orizzonte languido e sognante al tramonto, si fermava un attimo, si asciugava una lacrima e riprendeva a suonare.

Nella tribù, Betha ricopriva un ruolo estremamente importante, nonostante la sua tenera età: dicevano fosse una maga. Curava le ferite con le erbe, guariva la gente con ascessi e malanni, faceva nascere i bambini. Dicevano che inoltre sua madre, di cui ignoro il nome poiché il nonno non ebbe l'occasione di parlarmene, fosse stata messa incinta dal Diavolo in persona, ma lei, diversamente dalla Madonna quando partorì Gesù, non vantava certo una qualche verginità.

La tribù, per inciso, praticava riti pagani che avevano a che fare con le stagioni, gli animali, le piante, i venti, le tempeste. Gli dèi, dicevano, erano ovunque, parlavano con molte voci, vedevano tutto e punivano l'insolenza umana in maniera infallibile.
Conobbero la religione cristiana in Polonia, ma non la presero alla lettera; tuttavia, più per scaramanzia che per fede, molti di loro, capovillaggio compreso, si fecero tatuare sul cuore o incidere su anelli e orecchini una piccola croce latina, a dimostrazione della loro buona volontà.

Quando si stabilirono come braccianti nel podere, Miklos, Margit e Betha si distaccarono per sempre dalla tribù. Ma non da reietti. Ognuno di noi fa la sua scelta, disse il capovillaggio Ferec, un omaccione tutto rosso (capelli compresi) che aveva molti anelli alle dita, segno di rispetto da parte dei clan familiari. I ragazzi vennero lasciati andare, non senza dispiacere.

Così andarono le cose.

Nonno Miklòs diceva sempre che quelli furono anni duri. La gente del paese non aveva mai visto gente del genere, li considerava strani, li evitava. I commercianti non volevano vendere loro il pane, persino i cani randagi non volevano essere accarezzati da loro.

Essi crebbero in un clima ostile, consci di avere qualcosa di diverso dagli altri. Ma mentre Margit e lo stesso Nonno Miklòs se ne vergognavano, Betha, crescendo, cominciò a diventarne sempre più fiera. Diceva di avere qualcosa di prezioso, di inimitabile rispetto agli altri.

In effetti, lei, dicevano, era la figlia del diavolo.

Crebbe straordinariamente bella e, alla stregua di Margit, cominciò a sviluppare un modo di pensare simile a quello degli uomini.
Aveva una bella parlantina e per questo veniva sbeffeggiata dai ragazzi, che non sopportavano una donna così emancipata. A quindici anni cominciò a vestirsi da uomo. Portava i pantaloni, cosa assolutamente scandalosa per una donna all'epoca, le bretelle e una camicia bianca, nonchè un paio di scarpe di Nonno Miklòs, nere e lucide. Lavorava in campagna con i braccianti del paese, potava gli alberi e falciava il grano con un'energia atipica in una donna.

Poi arrivarono tempi orribili. La dittatura e le deportazioni costrinsero Nonno Miklòs e le sue sorelle a cambiare nome, e un bracciante del podere, Nicola, li prese in tutela. Brav'uomo, il bisnonno! Un uomo dall'aspetto gentile, con la barba candida e gli occhi verdissimi, verdi come le colline che circondavano la città. Così, Margit diventò Margherita, Miklòs diventò Michele e Betha, non si è mai capito perchè - forse per un errore all'anagrafe - Filomena.

Quando arrivò alle soglie dei diciotto anni, Margit pensò che Betha doveva sposarsi con qualcuno, e in fretta, prima di sfiorire. Il bisnonno era d'accordo, ma ad impedire ciò in quel momento fu la fama di Betha in città.

Strane cose accadevano, per colpa di Betha.
Pur lavorando come un mulo in campagna e come levatrice, Betha subiva continuamente le critiche della gente.
Continuava a vestirsi da uomo - e continuò per tutta la sua vita; prese la brutta abitudine di fumare la pipa e, la domenica, il sigaro; beveva, ogni tanto, giusto un goccio di cognac. Ma più di tutto, la goccia che fece traboccare il vaso fu la seguente: Betha parlava troppo. Criticava apertamente il podestà, sua moglie, le sue figlie e tutti i rispettati notabili della città. Si diffuse la voce che fosse monarchica - e in realtà lo era, come lo era il nonno, come lo era Margit e come lo era anche il bisnonno Nicola.
Quando passeggiava per la piazza, la gente la sbeffeggiava e la chiamava pazza. Betha guardava con indifferenza chiunque la sbeffeggiasse e riprendeva a camminare.
Ma un giorno - era domenica - nonno Miklòs e Betha sedevano su una panchina vicino ad una fontanella, poco distante dal corso principale; il notaio più famoso della città, tale Damiano DeMita, gettando uno sguardo poco lusinghiero e data una scrollata di spalle, si avvicinò ai due e offrì dei soldi a Betha per andare a casa sua.
Nonno Miklòs si alzò, indignato, e stava già per mettere mano al coltello, quando Betha lo fermò. Prese la banconota dalla mano sudicia del notaio, la guardò incantata come se ci fosse un qualcosa di straordinario stampato sopra, fissò il notaio con gli occhi sgranati e mormorò qualcosa, mentre la sua mano affusolata stringeva convulsamente la banconota.
Nonno Miklòs la fissò, inorridito, ma non proferì verbo.
Poi Betha gettò a terra la banconota e ordinò a nonno Miklòs di seguirla. E fecero ritorno a casa.

Quando ero piccola, chiedevo sempre a Nonno Miklòs che cosa Betha avesse detto al notaio. Mio nonno non mi rispondeva mai. Ma un giorno, quando glielo richiesi, mi sembrò di averglielo chiesto per la prima volta. Mi fissò con un indicibile orrore, poi chiuse gli occhi e tirò un sospiro così forte da scuotergli il petto con violenza. Quando aprì bocca per parlare, disse:

- Betha gli aveva detto qualcosa che nella lingua dei rom è tabù. Nella tribù ci hanno sempre insegnato che augurare la morte a qualcuno è un peccato nei confronti della natura, poichè i cicli naturali sono a noi sconosciuti e non ci possiamo impadronire del diritto di togliere la vita a qualcuno a nostro piacimento. Ma Betha gli augurò la morte, quel giorno. Gli predisse la morte e una serie di orribili accadimenti nella sua famiglia. -

- E al notaio, che accadde, nonno? -

Mio nonno tacque. Si fece il segno della croce mormorando: "Dio mi perdoni" e riprese:
- Quella notte stessa i ladri penetrarono in casa sua. Fecero violenza alle sue figlie, sgozzarono sua moglie e a lui spezzarono il collo. Poi bruciarono la tenuta, la saccheggiarono e portarono via il bestiame per macellarlo. Mesi dopo, alcuni parenti arrivarono in città per reclamare il possesso di altre tenute e masserie appartenute ai defunti. Morirono anche loro, nel giro di qualche giorno, alcuni di febbri malariche, altri di mali incurabili. L'ultimo rimasto impazzì e finì per impiccarsi in campagna. -

Sì, la colpa era assolutamente di Betha. E questo fu solo un esempio. Altre morti, altre disgrazie accaddero, sempre, inspiegabilmente, per colpa sua. Nonno Miklòs sapeva il perchè. Lei era una maga, lo era sul serio, era cresciuta nell'odio e le sue doti da guaritrice erano sparite, erano affogate nell'odio e nel desiderio di morte.

Morì a ventinove anni, di parto, dopo aver incontrato e sposato l'uomo che amava davvero.

mercoledì 11 maggio 2011

Pensieri Nomadi

Nonno Michail diceva sempre:

"Lo so che noi zingari siamo crudeli.

Non conosciamo l'amore sedentario. Per noi l'amore è viaggio, si estende ai confini più gelidi e solitari della terra, e ammesso che essa sia una sfera finiremo per tornare al nostro vecchio amore, a quel pezzo d'anima che aspetta il nostro ritorno.

Per me il viaggio si è concluso. Ho visto infinite terre in cui il mio sguardo si perdeva verso l'orizzonte. A volte sedevo sulle sponde di un lago, vedevo il sole annegare lontano e pensavo: è qui che devo restare. Oppure: mi piacerebbe davvero, vedere ogni giorno questo tramonto, seduto sempre qui, in questo punto, mi piacerebbe vedere sempre una stessa cosa. Ma il vento cambiava, il tramonto mi deprimeva, i giorni di pioggia lo annientavano. E io mi rimettevo in viaggio, ringraziavo per l'ospitalità e sparivo.

Mi sono innamorato di più sguardi, perchè gli occhi umani sono mondi che spesso non si ha il coraggio di affrontare. Ognuno di noi ha qualcosa di bello da raccontare di sè, qualcosa che riguardi quella che chiamano 'anima' ma che io non so definire con un nome solo. E così mi sono innamorato di più anime, ma nonostante ciò ho deciso di non appagarmi.

Io l'ho deciso. Nessun destino ha deciso per me.

Poi il mio cuore ha scelto e si è fermato per non viaggiare più. E questo è, in sostanza, anche amore: il fermare i propri passi e invecchiare con accanto una parte di te che, pur non essendoti mai appartenuta sul serio, è in te e da lì non uscirà mai più."




sabato 9 aprile 2011

Saturday Morning

Bilancio della giornata di oggi:

  • madre che gira per casa giurando di sentire un topo squittire
  • cervello (il mio, quel poco che ne rimane) che riflette su quanto sarebbe utile avere un gatto, ERGO anche su quanto sarebbe utile avere un gatto con nove vite da consumare per dare la caccia ai topi
  • padre che si sveglia alle 6 anche nei giorni festivi, eseguendo i movimenti di un elefante indiano che si addentra in una giungla di bambù [conseguente CRASH BANG BUM SBAM stile "ladri in casa"]
  • colazione povera di contenuti - intelligente ma non si applica: caffè amaro (azz, lo zucchero!), latte dal sapore discutibile, biscotti di frumento
  • telefono semiscarico in dieci min di conversazione - il segnale più forte del mio stress
  • lo stile inconfondibile dei negozi d'abbigliamento made in China - colori agghiaccianti + "tutto sembra figo se indossato dal manichino"
  • sbuffo davanti allo specchio nel mentre della prova vestito + frase fatta: "Mi sa che sono ingrassata. Pff. Devo dimagrire. Guarda che fianchi, sembro un Botero."
  • cattiveria mammica: "Ti ho comprato le fragole. E anche la panna."
  • caldo soffocante, 30° all'ombra. Tizi nudi che portano a spasso il cane, il quale è più vestito di loro. Mare figo. Pensiero di sè in costume da bagno. Brivido. Dietadietadieta.
  • odore di mare e benzina. Mmmmh. Non tutti i mali vengono per nuocere.
  • (non tutti, a parte il nuovo singolo di Giusy Ferreri... Questo sì, nuoce.)
  • Мастер и Маргаритa, tuffo nel passato («Ieri, agli stagni Patriaršie, lei ha incontrato Satana.» ) Amore incondizionato per Michail Afanasevic. Perchè non pensare alla tesi?
  • riassunti di storia contemporanea sulla situazione mediorientale dal dopoguerra agli anni '80-'90. Martedì esame. Tragedia [superabile].
  • waitin' for better times to come. The day's not ended up yet.

giovedì 10 marzo 2011

[Long Hard Road Out Of Hell]


Mi sono rimessa ad ascoltare le Hole.
Credevo di aver rimosso l'attitudine pseudo-adolescenziale che nutrivo nei confronti di "Celebrity Skin" (tutto l'album), che sostanzialmente consisteva nell'immaginare di essere Courtney Love e nell'usare il lettore cd/mp3 come microfono.
Invece no.
Una scarica dal numero imprecisato di watt.
Cristo, ci voleva.
Meglio dimenticarsela questa giornata.

Erano mesi che non mi sentivo così avvilita.

Per uno strano patto formulato con il lato più offensivo, ipercritico e antipatico della mia persona, non offendo mai la gente che non conosco.
A parte un qualche caso isolato in cui mi sono lasciata sfuggire un "idiota lobotomizzata" in più.
Ma fa nulla, conoscendomi direi che sto dando il massimo in questo.
Ebbene, mi rendo sempre più conto che la gente fa fatica a capire qualcosa di sè e finisce irrimediabilmente per sconfinare oltre il territorio della sua persona per invadere il tuo.
Gente che non si conosce ma pretende di conoscerti meglio di quanto tu non ti conosca già.

Presupponendo che l'essere umano, nel suo continuo divenire, cambiare, adattarsi come un batterio alle situazioni ambiental-sociali che gli si presentano, finisce per non avere la soddisfazione di conoscersi per intero, mi chiedo: è possibile che ci siano alcuni umanoidi in grado di autogiudicarsi fino in fondo per poi avere la deliziosa accortezza di sputare sentenze sugli altri?

Una cosa non sussiste senza l'altra, a mio avviso.

Capisco i fisionomi, quelli che dagli atteggiamenti di una persona deducono una serie di caratteristiche più o meno evidenti del soggetto che osservano.
Anch'io mi vanto di essere un po' fisionoma; solo che sono una fisionoma imperfetta.
Pur deducendo, sbaglio, sopravvaluto, rimango delusa, mi scotto facilmente.

E chi può dire di non aver mai sbagliato in vita sua? Chi, con la mano sulla coscienza, può giurare di non aver mai ceduto alle tentazioni, nei momenti di acuta euforia o disperazione?
Io ho ceduto. Per debolezza, suppongo; o, posso concedere, per stupidità.
Ma la mia stupidità riguarda me stessa e, volendo esagerare, le persone che mi sono più vicine.
Non certo chi non mi conosce.

Mi si parla di reputazione. La reputazione è quello che gli altri pensano di me.
Gli altri pensano qualcosa di me per pura deduzione o per sentito dire, ed io onestamente ritengo che ciò non basti per diffamare qualcuno.
Chi non sa quanto male mi sono fatta e quante critiche crudeli e infondate ho dovuto subire negli anni non ha diritto di parola.
Io sono imperfetta, tremendamente fiera di esserlo ed oltretutto reduce da quello che gli errori insegnano.

La strada per la completa felicità è ancora lunga.
Sono ancora nella fase 1 ("gli errori del passato non rimangono nel passato, ma ti perseguitano nel presente") e fatico ad arrivare alla fase 2 ("ho sbagliato, ma la vita va avanti").

"I wanna live, I wanna love/But it's a long hard road out of Hell..."

(E comunque,
Courtney Love è una bambola gonfiabile mezza sgonfia. Il tipo che piacerebbe a Berlusconi.)

Love hangs herself
With the bedsheets in her cell
Threw myself on fires for you
10 good reasons to stay alive
10 good reasons that I can't find

Oh, give me a reason to be beautiful
So sick in his body, so sick in his soul
Oh, give me one reason to be beautiful
Oh, and everything I am

(Hole, Reasons to be Beautiful)

giovedì 18 novembre 2010

Il Vino degli Amanti


Oggi un piccolo refuso dei miei pensieri è tornato a galla.
Un non so che mi ha stretto la gola con un cappio, in ricordo dei mesi passati.
Ho avuto per un attimo la sensazione che tutto fosse ricominciato, tutto come prima...tutto, inesorabilmente, come prima.
In quel refuso non c'era nulla di importante o di particolarmente prezioso, solo un dettaglio, uno stupido, insignificante, piccolo dettaglio, di quelli che nelle foto di insieme non si nota. Lo nota solo chi l'ha già vissuto, chi ha l'occhio allenato.

Se c'è una cosa che ho imparato ad amare tardi, quella è la poesia. La mia insegnante di italiano delle elementari mi prendeva in giro per la mia scarsa attitudine all'interpretazione delle poesie.
"Che vuol dire secondo te?" mi chiedeva. E io non sapevo mai che pesci pigliare. Eppure le parole non erano difficili, ero capace di inanellarle, di incastrarle una nell'altra mentre leggevo ad alta voce...eppure...non capivo perché fossero sistemate in quella forma, con quel ritmo, con quelle rime.
Ebbi un trauma fortissimo che si estinse molti anni dopo, grazie ad un signore di nome Pablo Neruda, l'uomo più innamorato del mondo.

Ma non mi dilungo.

Sulla mia banale borsa dei Beatles scrissi una poesia di una poetessa musulmana, A'isha Arna'ut. Brevissima, scritta in fretta con un UniPosca viola. In quel momento rendeva l'idea. Anzi, le idee. Le mie che non avevano più nome e giravano alla deriva in cerca di senso. Io, disintossicata da poco. Da droghe, lusinghe e promesse estinte.

La luce non ha forma
L'onda non ha confini
L' Io non ha facciate
La passione non ha orizzonti.

Sii luce
Onda
Passione.

Sii te stesso.

Nemmeno io ci avevo fatto caso, scrivendola. Arrivava dritta, come una freccia, lì, al cuore.
"Bella, quella poesia" mi disse "Mi piace molto. E' breve e diretta"
Io sorrisi. Non ci avevo davvero fatto caso, non fu un sorriso di circostanza.
E dato che la apprezzava così tanto, gliela scrissi su un foglio. Ci disegnai sopra uno dei miei schizzi contorti. Lui apprezzò. Non avevo un doppio fine, volevo solo portarlo a conoscenza di quello che ero in quel particolare momento, o meglio, di quello che volevo essere e che non ero ancora arrivata ad essere.

Quando decidemmo di stare insieme, tutto fu così facile...ripresi a scrivere con la passione di un tempo, ricominciai a leggere Neruda e riallacciai i miei complessi rapporti con Baudelaire e Verlaine.

Ma mi illusi che fosse facile, che mi bastasse solo aver ritrovato quello slancio surreale e stregato nello scrivere, nel trovare le parole giuste, i suoni, le immagini per dirmi veramente alla fine del mio cammino. Non era così. E me ne sono resa conto ripescando questo insignificante dettaglio dal pozzo abbandonato della mia mente.

Durante una lezione di russo particolarmente noiosa, un nebbioso sabato mattina, strappai dal mio taccuino a quadretti un foglio, presi dalla borsa I fiori del male e scrissi su quel foglio una poesia.
Il titolo mi attirava. Descriveva alla perfezione quella ebbrezza molesta dei primi tempi di una relazione, quella stessa che stavo vivendo. Si chiamava Il vino degli amanti.

Oggi lo spazio è splendido! Senza morsi né speroni o briglie,
via, sul vino, a cavallo verso un cielo divino e incantato!

Come due angeli che torturano un rovello implacabile oh,
nel cristallo azzurro del mattino, seguire il lontano meriggio!

Mollemente cullati sull'ala del turbine cerebrale,
in un delirio parallelo, sorella, nuotando affiancati,
fuggire senza riposi né tregue verso il paradiso dei miei sogni.

Senza riposi, nè tregue...
Sembrano passati secoli da quella volta in cui gli misi il foglio tra le mani e lui mi sorrise. Mi sembrò tutto più vivo, più vero e meno labile.
Ma durò poco...

venerdì 9 luglio 2010

Prigione


È tutto quello che mi rimane di te

Questo cielo bugiardo che ride di me

Del mio sguardo fuori posto, del silenzio

Che ha abbracciato le mie spalle

È tutto


Quella strada che abbiamo percorso senza guardarci

Con l’anima in tasca, al riparo dai rimorsi

Mentre le gambe imparavano i passi necessari

A non inciampare

Con il sole e quei palazzi e quei fiori rossi e quel mare tremante

E noi


Sto inciampando, nonostante sappia dove andare

E se la strada fosse nei tuoi occhi?

Se io dovessi esplorarne il fondo per capire che segnale seguire?

A che è servito conoscere

La musica dissonante e attonita della tua voce

Il battito lieve che dal tuo petto

Si insinuava nella mia pelle

Ad ogni abbraccio?


Le mie confessioni si sono mischiate allo iodio delle onde

E le lacrime inespresse, alla rugiada di quei fiori rossi

La mia mente è un pilastro battuto dal vento

Giace su un muro non lontano da te

E osserva andare e venire

Le lune e le maree

E Dio solo sa cos’altro se non le stelle

E le profezie e la fine del mondo e la gente…


Non esisterà un luogo abbastanza ampio per le nostre anime

L’ho imparato prima di conoscere il tuo nome

L’ho letto nello spettro chiaro dei tuoi occhi

Nessuna parola poteva fare altrettanto

E non ho il diritto di uccidere l’amore

Tanto meno quello che esala dalle tue labbra

Ma dalle tue mani non ho trovato pace

Dio solo sa perché ne ho trovata standoti lontana

Ma non è tempo di spiegare…


Ho sfoderato il coltello ed è diventato il mio amante

E nella notte che verrà il suo bagliore

Gareggerà con quello delle stelle


È davvero tutto quello che mi rimane di te

E delle tue parole di seta

Te l’ho detto, sono prigioniera nel marmo


Alzo la testa e vedo nell’antro buio del cielo

La mia natura di abbozzo anatomico

Le gambe già formate muovono verso l’esterno

Avide d’aria, di molecole di sole, di umanità

E poi miseramente si piegano

Vinte dalle catene marmoree del silenzio

Del tuo e di quello della mia voce di pietra

Il boato di chi è prigioniero di un’idea

Che muore tra quattro pareti, sotto mille occhi…


È davvero tutto quello che mi resta di te

Tutto è andato, tutto mi è scivolato addosso

Tutto ha lavato la mia pelle come la pioggia

Ma non ha lasciato tracce esterne

Solo nel mio cuore si contano le ferite


Il sentimento è stato una lotta intestina

Tra ragione e follia

Ed era scritto che vincesse la ragione, nessun dubbio

Che fosse il suo turno

E adesso solo questo mi resta di te:

Il segno delle catene.