domenica 15 maggio 2011

La figlia del Diavolo



Nonno Miklòs era arrivato in città con le sue sorelle Margit, di dodici anni più grande di lui, e Erszebeth, che veniva affettuosamente chiamata Betha.
All'epoca, il nonno aveva circa sette anni, Margit ne aveva diciannove, mentre Betha ne aveva solo tre.

Margit aveva la testa sulle spalle, voleva lavorare alla stregua di un uomo. Non le interessava la fatica. Aveva braccia e gambe ben tornite, muscolose, piene di nervi; il viso sano e la fronte alta, i capelli nerissimi racchiusi in una treccia sghemba, un dente d'argento e labbra piene. Ma ciò che più colpiva di Margit era il suo sguardo: aveva occhi inquieti, di un nero profondo, e ciglia lunghe e sognanti. Il suo sguardo pesava più di un pugno nello stomaco. Aveva l'abitudine di tacere - diceva mio nonno - quando gli altri sprecavano il fiato. Parlava poco ma quel che diceva era sempre importante. Teneva una croce di legno sul petto, diceva che le teneva compagnia, ma quando le si chiedeva quale fosse il senso di una tale affermazione, essa scuoteva il capo e tornava alle sue faccende. Gli uomini della tribù e quelli della città la amavano ma la temevano, perchè pensava e agiva da uomo. Non si sposò mai, morì non troppo vecchia. Le era appena spuntata la prima ruga, sulla fronte. Essa la rendeva ancora più seria e severa, ma i suoi occhi continuavano ad ardere di un fuoco bizzarro, chiassoso, giovane.

Betha somigliava molto a Margit. Era un piccolo demonietto scarmigliato, coi capelli fulvi raccolti in trecce fermate da nastri rossi. Da piccola vestiva sempre di bianco, e la sua pelle era straordinariamente abbronzata. Ciò bastava per catalogarla come "bizzarra".
Aveva un piccolo flauto che suonava sempre, seduta davanti al cancello del podere. Suonava e guardava l'orizzonte, lo splendido orizzonte languido e sognante al tramonto, si fermava un attimo, si asciugava una lacrima e riprendeva a suonare.

Nella tribù, Betha ricopriva un ruolo estremamente importante, nonostante la sua tenera età: dicevano fosse una maga. Curava le ferite con le erbe, guariva la gente con ascessi e malanni, faceva nascere i bambini. Dicevano che inoltre sua madre, di cui ignoro il nome poiché il nonno non ebbe l'occasione di parlarmene, fosse stata messa incinta dal Diavolo in persona, ma lei, diversamente dalla Madonna quando partorì Gesù, non vantava certo una qualche verginità.

La tribù, per inciso, praticava riti pagani che avevano a che fare con le stagioni, gli animali, le piante, i venti, le tempeste. Gli dèi, dicevano, erano ovunque, parlavano con molte voci, vedevano tutto e punivano l'insolenza umana in maniera infallibile.
Conobbero la religione cristiana in Polonia, ma non la presero alla lettera; tuttavia, più per scaramanzia che per fede, molti di loro, capovillaggio compreso, si fecero tatuare sul cuore o incidere su anelli e orecchini una piccola croce latina, a dimostrazione della loro buona volontà.

Quando si stabilirono come braccianti nel podere, Miklos, Margit e Betha si distaccarono per sempre dalla tribù. Ma non da reietti. Ognuno di noi fa la sua scelta, disse il capovillaggio Ferec, un omaccione tutto rosso (capelli compresi) che aveva molti anelli alle dita, segno di rispetto da parte dei clan familiari. I ragazzi vennero lasciati andare, non senza dispiacere.

Così andarono le cose.

Nonno Miklòs diceva sempre che quelli furono anni duri. La gente del paese non aveva mai visto gente del genere, li considerava strani, li evitava. I commercianti non volevano vendere loro il pane, persino i cani randagi non volevano essere accarezzati da loro.

Essi crebbero in un clima ostile, consci di avere qualcosa di diverso dagli altri. Ma mentre Margit e lo stesso Nonno Miklòs se ne vergognavano, Betha, crescendo, cominciò a diventarne sempre più fiera. Diceva di avere qualcosa di prezioso, di inimitabile rispetto agli altri.

In effetti, lei, dicevano, era la figlia del diavolo.

Crebbe straordinariamente bella e, alla stregua di Margit, cominciò a sviluppare un modo di pensare simile a quello degli uomini.
Aveva una bella parlantina e per questo veniva sbeffeggiata dai ragazzi, che non sopportavano una donna così emancipata. A quindici anni cominciò a vestirsi da uomo. Portava i pantaloni, cosa assolutamente scandalosa per una donna all'epoca, le bretelle e una camicia bianca, nonchè un paio di scarpe di Nonno Miklòs, nere e lucide. Lavorava in campagna con i braccianti del paese, potava gli alberi e falciava il grano con un'energia atipica in una donna.

Poi arrivarono tempi orribili. La dittatura e le deportazioni costrinsero Nonno Miklòs e le sue sorelle a cambiare nome, e un bracciante del podere, Nicola, li prese in tutela. Brav'uomo, il bisnonno! Un uomo dall'aspetto gentile, con la barba candida e gli occhi verdissimi, verdi come le colline che circondavano la città. Così, Margit diventò Margherita, Miklòs diventò Michele e Betha, non si è mai capito perchè - forse per un errore all'anagrafe - Filomena.

Quando arrivò alle soglie dei diciotto anni, Margit pensò che Betha doveva sposarsi con qualcuno, e in fretta, prima di sfiorire. Il bisnonno era d'accordo, ma ad impedire ciò in quel momento fu la fama di Betha in città.

Strane cose accadevano, per colpa di Betha.
Pur lavorando come un mulo in campagna e come levatrice, Betha subiva continuamente le critiche della gente.
Continuava a vestirsi da uomo - e continuò per tutta la sua vita; prese la brutta abitudine di fumare la pipa e, la domenica, il sigaro; beveva, ogni tanto, giusto un goccio di cognac. Ma più di tutto, la goccia che fece traboccare il vaso fu la seguente: Betha parlava troppo. Criticava apertamente il podestà, sua moglie, le sue figlie e tutti i rispettati notabili della città. Si diffuse la voce che fosse monarchica - e in realtà lo era, come lo era il nonno, come lo era Margit e come lo era anche il bisnonno Nicola.
Quando passeggiava per la piazza, la gente la sbeffeggiava e la chiamava pazza. Betha guardava con indifferenza chiunque la sbeffeggiasse e riprendeva a camminare.
Ma un giorno - era domenica - nonno Miklòs e Betha sedevano su una panchina vicino ad una fontanella, poco distante dal corso principale; il notaio più famoso della città, tale Damiano DeMita, gettando uno sguardo poco lusinghiero e data una scrollata di spalle, si avvicinò ai due e offrì dei soldi a Betha per andare a casa sua.
Nonno Miklòs si alzò, indignato, e stava già per mettere mano al coltello, quando Betha lo fermò. Prese la banconota dalla mano sudicia del notaio, la guardò incantata come se ci fosse un qualcosa di straordinario stampato sopra, fissò il notaio con gli occhi sgranati e mormorò qualcosa, mentre la sua mano affusolata stringeva convulsamente la banconota.
Nonno Miklòs la fissò, inorridito, ma non proferì verbo.
Poi Betha gettò a terra la banconota e ordinò a nonno Miklòs di seguirla. E fecero ritorno a casa.

Quando ero piccola, chiedevo sempre a Nonno Miklòs che cosa Betha avesse detto al notaio. Mio nonno non mi rispondeva mai. Ma un giorno, quando glielo richiesi, mi sembrò di averglielo chiesto per la prima volta. Mi fissò con un indicibile orrore, poi chiuse gli occhi e tirò un sospiro così forte da scuotergli il petto con violenza. Quando aprì bocca per parlare, disse:

- Betha gli aveva detto qualcosa che nella lingua dei rom è tabù. Nella tribù ci hanno sempre insegnato che augurare la morte a qualcuno è un peccato nei confronti della natura, poichè i cicli naturali sono a noi sconosciuti e non ci possiamo impadronire del diritto di togliere la vita a qualcuno a nostro piacimento. Ma Betha gli augurò la morte, quel giorno. Gli predisse la morte e una serie di orribili accadimenti nella sua famiglia. -

- E al notaio, che accadde, nonno? -

Mio nonno tacque. Si fece il segno della croce mormorando: "Dio mi perdoni" e riprese:
- Quella notte stessa i ladri penetrarono in casa sua. Fecero violenza alle sue figlie, sgozzarono sua moglie e a lui spezzarono il collo. Poi bruciarono la tenuta, la saccheggiarono e portarono via il bestiame per macellarlo. Mesi dopo, alcuni parenti arrivarono in città per reclamare il possesso di altre tenute e masserie appartenute ai defunti. Morirono anche loro, nel giro di qualche giorno, alcuni di febbri malariche, altri di mali incurabili. L'ultimo rimasto impazzì e finì per impiccarsi in campagna. -

Sì, la colpa era assolutamente di Betha. E questo fu solo un esempio. Altre morti, altre disgrazie accaddero, sempre, inspiegabilmente, per colpa sua. Nonno Miklòs sapeva il perchè. Lei era una maga, lo era sul serio, era cresciuta nell'odio e le sue doti da guaritrice erano sparite, erano affogate nell'odio e nel desiderio di morte.

Morì a ventinove anni, di parto, dopo aver incontrato e sposato l'uomo che amava davvero.

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