martedì 4 agosto 2009

Il corso #1


L'aria era opprimente, immobile, estatica. Sicuramente qualcosa fremeva in attesa di un segno, di un avvenimento, di qualcosa che scuotesse quella giornata d'Agosto, la prima domenica del mese.
Il Corso, nei pressi del Caffè degli Artisti, brulicava come un formicaio prima di una tempesta, ma con uno strano ritmo discendente. Un vecchietto tra i tanti che affollavano le panche dei giardini di Piazza Cavour si appoggiò a bastone e resto lì in piedi a guardare il mondo che gli camminava attorno con i suoi occhietti cisposi animati da una luce innaturale.

La coppola di fustagno a quadri che aveva in testa era troppo pesante per un tempo del genere, e anche la camicia era d'impiccio, ma il vecchio signore era troppo affezionato alla sua coppola e, in quanto alla camicia, sua moglie, donna dinamica e volitiva, non gliel'avrebbe fatta passare liscia se si fosse permesso di uscire di casa in disordine.

L'ultima volta che si era permesso di sedersi sui gradini della chiesa in canottiera, lei lo aveva costretto a farle la spesa, e il poveretto era tornato a casa con chili e chili di rape e due meloncini dalla polpa gialla di un chilo l'uno.

Solo al pensarlo, il pover'uomo scosse la testa e si aggiustò le maniche della camicia, quasi temendo che la moglie gli spuntasse alle spalle di soppiatto.

Soffriva di artrosi, il buon uomo, e le sue mani erano callose come radici di zenzero e nere come la terra. Anni e anni passati in campagna a scuotere i rami degli ulivi per far cadere le olive più belle nelle reti all'ombra degli alberi lo avevano reso possente, ma l'età lo aveva fatto curvare e lo aveva indebolito, e molto spesso si sentiva troppo stanco anche per starsene lì a guardare il mondo andare avanti mentre lui restava lì dov'era.


Più in là, una signora dall'età indefinibile, forse vicina alla quarantina, si recava a messa. Aveva il rosario tra le mani, un bel rosario di grani rosa, e una immaginetta della Madonna del Carmine nella borsa. Fin da quando era bambina pensava che Dio dovesse esistere per forza. Il perchè non se l'era mai spiegato, nè l'aveva mai cercato in nessun modo. Dio esiste e basta, si diceva, inutile chiedersi dove sia e a cosa pensi, e come sia e cos'abbia fatto.

Aveva lunghi capelli neri, un po' ondulati, molto lucidi, e gli occhi dello stesso colore, molto piccoli e ravvicinati. Le donne del paese la chiamavano "la biscia" proprio per questo, e anche per la sua indole cattiva e indolente. Era, come si diceva da quelle parti, "vacantina", che sarebbe come dire nubile. Non si era mai sposata nè aveva mai avuto figli, ma se c'era una cosa che le riusciva bene, quella cosa era mandare in confusione gli uomini sposati o in procinto di farlo.

Non era bella, ma sapeva quello che voleva, e questo era un vantaggio.

Ma, lo sappiamo tutti, questo modo di fare porta ad essere infelici e soli.

Chissà se questo fu il suo destino.

martedì 30 giugno 2009

Canicola


Canicola.
I capelli appiccicati dietro la schiena e il respiro corto. Camminavo da quasi mezz’ora per il corso, confortato dall’ombra vagante degli alberi, spinta dalla folla chiassosa ora a destra, ora a sinistra, come una foglia secca spinta ad un cammino tortuoso dal corso di un fiume in piena.
La luce era quasi accecante. Mai più avrei visto in vita mia un giorno così caldo, ed era solo Luglio. E mi si profilò in testa la domanda più banale del mondo (“Come sarà ad Agosto, se già a Luglio si muore?”), ma la scacciai con insolenza dalla mia testa e continuai a camminare. Dovevo raggiungere quel dannato autobus, dovevo tornare a casa, farmi una doccia, bere acqua ghiacciata, a costo di bucarmi lo stomaco.
Passai davanti ad un banchetto di gelati. Il proprietario, un ometto vecchio e cisposo, tondo come una biglia e con un sorriso sdentato, vendeva granite semi-sciolte, perché il frigo non reggeva un caldo così forte, il motore era troppo vecchio, diceva, ma si stringeva nelle spalle e ammiccava alla folla con noncuranza. La gente scappava dal caldo, lamentandosi delle spalle spellate e della pelle scottata, blaterando di cose senza senso. Anzi, pensai, di cose totalmente inutili.
Ma questo è normale, e non si può dire che io stessi pensando a qualcosa di più intellettuale.

“Mi scusi…”
Sentii una mano sfiorarmi una spalla. Mi voltai esitante e vidi dietro di me un vecchio, distintissimo signore. Lo osservai per un po’ prima di rispondere. Aveva i capelli completamente bianchi e il viso coperto di rughe, sottili come ragnatele, la pelle olivastra e curata, ma gli occhi…gli occhi brillavano come se crepitassero di scintille infuocate, come se si fossero trovati nel corpo sbagliato e fossero appartenuti ad un giovane ventenne appassionato e vitale.
Fu sicuramente il caldo a farmi esitare, non ero molto reattiva né tantomeno così disposta a relazionarmi con chicchessia, ero sudata e a disagio.
“Si?” risposi dopo un po’.
“Ecco…” cominciò lui. Aveva una voce profonda e nasale. “Mi chiedevo se potesse dirmi, signorina, dove si trova il Lungomare di questa città.”
Sgranai un po’ gli occhi e guardai oltre le sue spalle.
“Beh…il Lungomare è dietro di lei, signore.” E gliel’indicai con la mano, e con quel gesto abbracciai i giardini, il Margherita, il molo, le barche dei pescatori, il faro e infine il mare setoso e trasparente che quel giorno giaceva pigro e immobile nel suo letto sabbioso, indolente e scottato dal sole.
“Si, ma io cercavo una cosa in particolare. Io cercavo la statua di Mazzini.” Continuò il signore, passandosi una mano sul colletto della camicia.
Feci un mezzo sorriso e cercai di fare mente locale.
“Capisco. Beh, non può averla vista, è nascosta tra gli oleandri.” E gli spiegai sommariamente la strada, rassicurandolo che non era molto lontana. Il vecchio mi sorrise e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto bianco.
“Scusi se glielo chiedo” cominciai, abbastanza perplessa “Ma non ha caldo vestito così?”
Era, effettivamente, vestito molto fuori stagione. Portava una camicia blu scuro e una giacca che sicuramente era di velluto, sempre blu, e un paio di pantaloni beige (nonché un cappello simile ad un basco che gli copriva la fronte).
“Signorina, lei non sa che il caldo e il freddo sono mere sensazioni, è giovane e glielo concedo. Ma i dati empirici sono tutt’altra cosa. In questo momento penso alla neve e non sento caldo, e so che il caldo è solo una sensazione, una proiezione olografica che aiuta i negozi a vendere più costumi da bagno.”
Mi sorrise e io risposi con un’occhiata perplessa. Non so cosa mi passasse per la testa. Ma tutt’ora ritengo che nella mia testa ci fosse una disputa tra Tories e Whigs: l’emisfero destro mi diceva che quel vecchietto era fondamentalmente un po’ tocco e quello sinistro asseriva che invece qualcosa di logico in lui c’era, in fondo.
Decisi che era meglio andarmene. Per il bene del mio cervello.
“Spero di esserle stata utile. Buongiorno.” Mi voltai e ripresi a camminare, e già assaporavo il ritorno alle esperienze normali, alla vita normale, alla gente normale….

“Era notte, era Novembre. Pioveva a dirotto, non ricordo che anno fosse, ma a me sembra ieri, lo sa…?” cominciò lui.
Intorno a me tutto si pietrificò. Come se all’improvviso la sua voce mi avesse richiamato ad un abisso sinistro ma allo stesso tempo familiare, conosciuto, accogliente, a non so che era, tutto taceva, anche il sole aveva smesso di abbagliarmi. Mi toccai le braccia per assicurarmi di essere sveglia e rabbrividii quando sentii che non dormivo e che la mia pelle era ancora calda.
Lo guardai e mi sembrò che lui fosse grato della mia attenzione. Non parlai.
“E Lei era così bella da far desiderare alla luna di non essere mai nata. Eravamo nella sala da ballo di un hotel, e io ero solo un cameriere. Ricordo la luce delle lampade e l’odore di cera sciolta, e c’era un silenzio profondo, un silenzio assordante, e Lei era seduta su un divanetto rosso e leggeva Neruda. Aveva un vestito nero, di pizzo, e la sua pelle affogava nel nero delle trine, un crocifisso d’argento le cingeva il collo e aveva degli orecchini di perla, bianchi, splendidi. Sentivo la pioggia spaccare i vetri delle finestre e piegare i rami degli alberi, era crudele e crudamente malinconica, e non capivo se essa fosse fuori o dentro di me, capisce? Ero un ragazzo, un giovanotto assetato di vita, mai nella mia vita sentii dentro di me soffiare un vento tale da far appassire ogni pensiero e spazzare via mille futili cose…e dopo quella notte non lo sentii mai più. La mia anima era già sulle sue labbra di seta, avrei fatto qualsiasi cosa per toccarla e per sapere se fosse vera o se fosse un riflesso di chissà quale fantasma,o angelo che fosse. Tutto fu perduto, quella notte. Se solo avessi…ma lasciamo stare…a lei non interessano queste cose, lei penserà che sono pazzo…” e abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano diventati colate di lava e lapilli incandescenti, si muovevano come se dovessero afferrare una farfalla. La sua voce era spezzata, spietatamente sincera, spietatamente addolorata. Fece due passi indietro e si toccò il cappello come per salutarmi.
“Perché me l’ha detto?” chiesi. E non mi resi conto di stare piangendo, presa com’ero dal filo rosso della mia domanda. Il vecchio sorrise e si toccò di nuovo il cappello.
“Empatia, mia cara.” rispose con un sorriso stanco “Non c’è legge di natura o legge umana a riguardo. È un fenomeno assai curioso, assai curioso davvero. Una reazione chimica strana e, strano a dirsi, gli alambicchi di questa strana pozione sono gli occhi di chi guarda. E i suoi piangono. Se permette, vorrei chiederle perché piange.”
Sgranai gli occhi e mi asciugai le lacrime con quella domanda in testa.
“Non…non lo so. Mi crede se le dico che non lo so?” dissi, sorridendo e piangendo ancora.
“Certo che le credo, mia cara. E la risposta è: empatia. Significa che lei per un attimo beveva le mie parole e vedeva quel che i miei stanchi occhi vedevano come se fosse venuta fuori dal suo passato. Mi creda, non c’è risposta. E lei piange perché sa che non mi resta nulla, che il mio passato è il mio presente, e che il mio futuro sarà ancora il mio passato, fino alla tomba.”
Detto questo, mi salutò e si incamminò nel senso opposto al mio. Scomparve dopo poco, inghiottito dalla folla. E io non ebbi il coraggio di richiamarlo indietro. La vita riprese a scorrere, e non volendo pensare mi rituffai in essa e ripresi a fare la foglia inghiottita dalla furia del fiume della vita. Ma i pensieri, lo capii subito, scorrevano più veloci della vita. E mi sorpresi di capire che la gente intorno pensava di me che fossi diventata pazza. Io, pazza?
Pazzo è chi non ascolta, pazzo è chi non vive. Sorrisi e andai via. Avevo vissuto abbastanza.

martedì 2 giugno 2009

Lasciami essere felice - Pablo Neruda


Questa volta lasciami
essere felice,
non è successo nulla a nessuno
non sono in nessun luogo,
semplicemente
sono felice
nei quattro angoli
del cuore, camminando,
dormendo o scrivendo.
Che posso farci, sono
felice,
sono più innumerabile
dell'erba
nelle praterie,
sento la pelle come un albero rugoso,
di sotto l'acqua,
sopra gli uccelli,
il mare come un anello
intorno a me,
fatta di pane e pietra la terra
l'aria canta come una chitarra.

mercoledì 6 maggio 2009


SECRETUM

La tua voce vive in me,
nel profondo
con l’urlo del sangue
gioioso, vigile, senza meta
e precipita nell’abisso
dei miei sensi...

Il cuore, ridendo sguaiato,
freme fino a fermarsi
fino a voltarsi indietro
fino a strozzare nell’aria
il mio respiro...

E’ strano...
Non amo...

Non guardo in alto,
non guardo il tuo viso puro
perchè ogni mio sguardo è polvere
è la sabbia di una debole clessidra
che oscilla nel vento...

Ogni soffio è il tuo tocco leggero
e l’anima sale verso il cielo
scende, risale, si ferma
cade divisa come grandine
cade e non ha peso...

Io non ho senso nè distanza
e il tuo aspro sorriso
mi tiene in vita
quando la vita si volta di spalle...

Il tuo sguardo accende domande
strane, folli scintille
tra le mie dita inermi
tremule gocce d’acqua
che scivolano, lascive,
sul freddo vetro di un bicchiere...

E il giorno fugge come un sogno
che ha mille spiegazioni...

Mi siedo, mi chiedo dove sbaglio
e perchè sento rabbia e calore
in quel sangue che corre
e perde corpo e fiato
e non ha nome
se tu non gli dai un nome...

venerdì 1 maggio 2009

Ciò che l'acqua mi diede - #1



Sull'acqua ci sono ricordi che danzano indiavolati, mentre noi non ci accorgiamo della loro presenza, della loro danza, del loro essere dolorosamente vicini alla nostra vita presente.

Ma è tutto ciò che l'acqua ci ha dato, quello che ci aspettava quando eravamo ancora racchiusi nel grembo materno, quello che tornerà sempre e non lascerà mai le sponde del nostro essere, come l'acqua, il mare, un fiume....come la vita....

domenica 19 aprile 2009

FEELING LIKE SALOME'


Thy hair is horrible. It is covered with mire and dust. It is like a crown of thorns placed on thy head. It is like a knot of serpents coiled round thy neck. I love not thy hair . . . . It is thy mouth that I desire, Iokanaan. Thy mouth is like a band of scarlet on a tower of ivory. It is like a pomegranate cut in twain with a knife of ivory. The pomegranate flowers that blossom in the gardens of Tyre, and are redder than roses, are not so red. The red blasts of trumpets that herald the approach of kings, and make afraid the enemy, are not so red. Thy mouth is redder than the feet of those who tread the wine in the wine-press. It is redder than the feet of the doves who inhabit the temples and are fed by the priests. It is redder than the feet of him who cometh from a forest where he hath slain a lion, and seen gilded tigers. Thy mouth is like a branch of coral that fishers have found in the twilight of the sea, the coral that they keep for the kings! . . . It is like the vermilion that the Moahites find in the mines of Moab, the vermilion that the kings take from them. It is like the bow of the King of the Persians, that is painted with vermilion, and is tipped with coral. There is nothing in the world so red as thy mouth . . . . Suffer me to kiss thy mouth.


In questi momenti sento il sangue che ribolle. Nulla mi aveva mai fatto più rabbia e aveva fatto sorgere in me il desiderio di sentire di nuovo le sue labbra sulle mie. Sono impotente, incatenata, come una tigre in gabbia che non smette di ruggire. Maledetta questa gelosia che mi scorre in tutto il corpo come un veleno e non mi fa respirare, mi chiude gli occhi e oscura il mio giudizio e la mia razionalità.

Per quale strano caso del destino ho dimenticato che mi ama, che non vuole altro dalla vita che non sia io, questo stupido essere che ora siede in un angolo con la testa tra le mani e un calore malato e rabbioso che sale dal sangue e gli invade tutto?

Penso a Salomè, come l'ha dipinta Wilde. Capricciosa, incostante, invaghita di un uomo che ama solo Dio e nessun altro. Salomè che danza seminuda davanti a mille occhi esterefatti pur di avere la testa dell'uomo che le ha negato un bacio....

Mi sento così oggi. Ribelle e furente. Che sensazione orrenda! Vorrei essere serena, vorrei ma la gelosia mi trattiene e non mi lascia libera...sia maledetta questa voglia che ho di urlare, piangere, bestemmiare, maledire la causa di questa rabbia assurda! Me la pagherà un giorno, ne sono certa.

Vorrei che tu fossi qui a darmi della stupida e a dirmi che mi ami, amore mio. Io sono una donna. Volubile, stupida, capricciosa e incontentabile. E' anche per questo che mi ami, lo so. E allora amami, dammi della stupida, schiaffeggiami, riportami alla realtà. Ho bisogno solo di te, del tuo corpo, delle tue mani, del tuo sguardo. Dimmi che sono sciocca e che non ho capito nulla, non ti do' torto.

Ma non dimenticartelo

ti amo....


SALOME’

Nuda e arrogante serpe
che oscura il sole
e il giro dei pianeti

col suo biancore argenteo
la Luna mi ha creata
per sua ancella

e il mio viso
dagli occhi di ferro
cerca il tuo cuore

lo sfida
a restare nel petto
a non avvizzire

mentre il mio corpo
quasi giunco
o lingua di fuoco

danza con passo
di tigre rabbiosa
avanza come valanga

arretra
si disperde
si innalza come nebbia...

e sono luce che acceca
il tuo occhio
e disperde i tuoi pensieri

e sono ombra che viene
da lontane oasi
per incantarti...

muovo passi
leggeri, frenetici
sul basalto freddo

su sangue innocente
la musica
mi punge la pelle

mi infiamma i lombi
e le spalle
crepita in me

come tormenta
di neve aspra
mista a vento...

e sono giunco
che piega il collo
ma non si spezza

e sono corrente
che ridesta
il tuo desiderio sopito...

sul fosco oceano
dei fianchi
tremano i veli candidi

prima di cadere in terra
prima di liberare
il mio segreto nascosto...

e come fenice ardente
da me, da me sola
muoio e rinasco

per spargere il tuo sangue
col mio comando
per baciare le tue labbra gelide

che non conoscono
il mio calore:
e da me non aspettarti amore

profeta del deserto
Johanaan!...

mercoledì 15 aprile 2009

29 AGOSTO 2007 - HELLAS


In piedi, le mani appoggiate alla ringhiera smaltata di bianco, sul ponte del traghetto diretto ad Igoumenitsa, circondata dall'odore salato del mare, guardavo l'orizzonte. Pensavo fosse lui a guardare me, nel suo silenzio così buio e schivo, ma non capivo.
Le voci dei miei compagni si sentivano in lontananza, attutite. Potevo sbirciare i loro visi da un oblò incrostato di salsedine. Ridevano, scherzavano, fremavano dalla voglia di arrivare. Era notte fonda, e la luna sembrava piangere e spargere le sue lacrime argentee nella volta del cielo per formare le stelle. In quel momento mi ricordai di Selene. La personificazione di Diana, dea della caccia, quando saliva sul carro della luna e percorreva il cielo, sospinta dal vento, passando su città e villaggi addormentati senza far rumore.
Il vento si fece più forte e chiusi gli occhi per non lasciar entrare la salsedine. Faceva troppo freddo per restare fuori. Sentii sotto i miei piedi il borbottìo del ventre della nave, il contorcersi del motore che bolliva e rallentava la corsa, e vidi un sottile filo di fumo grigiastro levarsi nell'aria e sparire. Tornai in cabina e dormii un sonno strano, leggero, quasi nullo, tentando di non pensare al rollìo dell'oceano che si scatenava.

La sveglia suonò alle 5. Senza pensarci mi alzai e andai verso il portellone che dava sul ponte.
Tra i bagliori rossi e ancora neri dell'alba distinsi una sagoma nera, quasi una donna dormiente.
Quella donna era l'Ellade. Il viaggio era finito. Un giorno era cominciato.

29 AGOSTO, NOTTE/
GRECIA

Ora sì, si vede appena
confusa, in lacrime
nella nebbia
impalpabile
densa, sognante
figlia del fuoco,
dell’atmosfera,
dei segreti
e di amore,
amore sofferente...

E’una mano
che lambisce
all’infinito
pelle, seni,
occhi d’avorio
il mare
bruno di cenere
e pece bollente
nella luce
tagliente
di una lanterna
in alto...

Nella gola
di questa nave
nel legno dipinto
nel ferro
nei tubi
nel fumo
bolle, brucia
il boato
del motore
che infiamma
il mio respiro...

Mi avvicino
mi allontano
e sono sempre
ferma
e tutto
in me
fuori di me
esplode
e varia
nel buffo teatro
dell’assurdo
dietro il sipario
muto
della notte...

E Lei
distesa di terra
scabra e sconvolta
nera e immobile
riposa
nell’alvo della luna
e io, con una mano,
scavo il profilo
dei suoi fianchi
sotto un cielo
straniero
d’ambrosia
che, dolce,
chiama il suo nome:
Hellas, divina...