sabato 15 ottobre 2011

Senza Titolo #1


Il gatto aveva un dorso sinuoso, mobile come una duna desertica modellata dal vento. Il suo pelo nero ondeggiava, e la luce della lampada lo rendeva sempre più verdastro, come fosse intinto nell’assenzio. I suoi occhi erano gioielli d’ambra e le sue zampe erano distese, sembravano abbracciare la notte scura e umida con una familiarità particolare. Come se si conoscessero da sempre.

La strada era deserta. Pochi temerari avevano osato sfidare la cappa umida che sostava da circa sette giorni sulla città, e quei pochi che passavano da quella polverosa stradina si guardavano bene dal sostarci troppo, addentrandosi in tutta fretta nei meandri di un qualsiasi locale chiuso.

Eppure, il cielo era terso. Guardandolo, a luci spente, sarebbe sembrato un campo sterminato di fiammelle accese. La luna si ergeva, maestosa e piena, sulle antiche mura della città, illuminate da una nauseante luce giallastra, propagata dai lampioni.

Il gatto osservava tutto questo con i suoi occhi ambrati. Sembrava capirne qualcosa, della vastità della notte, delle stelle brucianti sull’apatica massa del cielo, dei molteplici destini dell’uomo, dei meccanismi della natura. I gatti sembrano capire ogni cosa, e forse capiscono realmente.

Siamo così stupidi da credere di essere noi a doverci prendere cura di loro, ma forse sono loro a prendersi cura di noi, chiedendo alle stelle del nostro destino.

Il gatto, immobile come una statua, contemplava le stelle. Io contemplavo lui, come lo sciocco che contempla il dito e non le stelle. Le stelle in realtà balenavano nei suoi occhi come desideri inespressi, e potevo quasi contarle, per quanto erano chiari e limpidi quegli occhi.

Mai essere umano vivente avrà quegli occhi, e quell’innocenza naturale che col tempo l’uomo ha perso diventando bestia. In una notte d’agosto, pensavo a tutto ciò, osservando il gatto nero che a sua volta osservava le algide e fredde stelle accoccolato sul gradino della porta di casa mia.

Erano giorni che si fermava proprio davanti alla mia porta. All’inizio non prestai attenzione alla sua vispa presenza. Pensai che si trattasse di un gatto qualunque, lo accarezzai qualche volta prima di andar via di casa, ma sovrappensiero, chiedendomi se avessi dimenticato qualcosa di indispensabile in casa. In ogni caso, avevo la mente affollata di sogni, di impegni, di sensazioni. Roba che nemmeno un’agenda, o un diario, o un quaderno, sarebbero riusciti a contenere.

Fu in seguito che mi resi conto che forse il gatto non era lì per caso. Era un segno. Nella mia costante ansia di cambiamento, riuscii a pensare che quel gatto fosse lì per farmi capire che tutto stava cambiando.

Ma cosa avrebbe dovuto cambiare?

Gestivo una libreria a pochi passi da casa. La desideravo da sempre, data la passione dei miei genitori per la letteratura e per i libri storici ed esoterici. Alla fine la ottenni. Fu un lavoraccio metterla su, e mentre lo facevo rimpiangevo gli anni passati a sognare lunghi viaggi che nella realtà non avrei mai fatto. Misi da parte denaro su denaro per creare un’opera d’arte, come volevo che fosse. Un luogo di quieta grandezza e, allo stesso tempo, di dionisiaco furore. Alle pareti avevo appeso foto d’epoca, principalmente Marlene Dietrich e Maria Callas, due eterni ideali di bellezza che io non avrei mai raggiunto, essendo io bassa, tonda e profonda detrattrice dei tacchi alti che tanto erano cari a Marlene. La parete dietro al bancone era un tripudio di Klimt e Dalì. Uno accanto all’altro vi erano la Dafne e la Metamorfosi di Narciso, due quadri che mi trasmettevano una profonda e intensa soddisfazione, che nessun altro capirà mai. Quella libreria era la mia vita, o meglio, era ciò a cui avevo dedicato tutta la mia vita.

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