I silenzi più neri
domenica 5 febbraio 2012
Voce del verbo "Odiare"
Oggi la mia testa mi ha costretto ad imparare nuovamente il congiuntivo del verbo "odiare". E così sono ore che me lo ripeto:
che io odii
che tu odii
che egli odii
che noi odiamo
che voi odiate
che essi odiino
La luce sembra essere sparita dalla faccia della terra. O forse semplicemente è sparita dalla mia faccia. Sono circondata da persone che mi dicono che tutto questo me lo sono andato a cercare.
Ma credo che si debba lottare contro tutti i tempi del verbo "odiare" per imparare ad amare se' stessi un po' di più del solito.
Non sopportarsi.
Amarsi.
E' uno di quegli sforzi titanici che vanno fatti senza remore.
La verità?
Sono stanca di sopportare gli sfoghi degli altri. Sono stanca di farmi in quattro pur di non vedere qualcuno nuotare a vista in un mare di merda. Il risultato è sempre lo stesso: non rimane nulla per me, non rimane altro da fare che riposarsi un attimo e poi riprendere i problemi degli altri sulle spalle.
E' un rimbalzello crudele: rimando i miei problemi, le mie insoddisfazioni, la mia felicità, per vedere la stessa felicità e soddisfazione che cerco dipinta negli occhi delle persone che mi stanno accanto.
E per me? Ce ne sarà mai abbastanza o arriverò sempre a pescare dal piatto per ultima scoprendo che è vuoto e non ci è rimasto più nulla?
che io odii
che tu odii
che egli odii
che noi odiamo
che voi odiate
che essi odiino
Stanchezza.
Rabbia.
Paura.
Il pensare al domani non mi ha mai fatta sentire così schiacciata e inerme.
E della mia vita, che posso fare?
Posso fuggire da questo posto, dove tutti mi giudicano e mi fanno sentire sporca, per andare in un altro più lontano?
Posso tingermi i capelli di blu, farmi rifare il naso, rasarmi le sopracciglia e comprarmi un grosso cagnone pacifico da portare a spasso tutte le mattine nella via di casa, magari ad Oslo, magari in Siberia, magari in Finlandia?
Posso mandare al diavolo tutte le piccole cose che ho amato della mia famiglia, i consigli idioti di mia madre, i gusti di mio padre in fatto di libri, le mani rugose di mia nonna, l'odore di Camel impigliato tra i capelli di mio cugino?
Posso ricominciare?
Cancellare tutti i miei demoni con un colpo di spugna?
Posso dimenticare, smettere di soffrire, smettere di essere sofferenza e di emanare sofferenza?
Posso vivere?
E, cosa più importante di tutte: posso dimenticare il verbo "odiare"?
sabato 15 ottobre 2011
Senza Titolo #1
Il gatto aveva un dorso sinuoso, mobile come una duna desertica modellata dal vento. Il suo pelo nero ondeggiava, e la luce della lampada lo rendeva sempre più verdastro, come fosse intinto nell’assenzio. I suoi occhi erano gioielli d’ambra e le sue zampe erano distese, sembravano abbracciare la notte scura e umida con una familiarità particolare. Come se si conoscessero da sempre.
La strada era deserta. Pochi temerari avevano osato sfidare la cappa umida che sostava da circa sette giorni sulla città, e quei pochi che passavano da quella polverosa stradina si guardavano bene dal sostarci troppo, addentrandosi in tutta fretta nei meandri di un qualsiasi locale chiuso.
Eppure, il cielo era terso. Guardandolo, a luci spente, sarebbe sembrato un campo sterminato di fiammelle accese. La luna si ergeva, maestosa e piena, sulle antiche mura della città, illuminate da una nauseante luce giallastra, propagata dai lampioni.
Il gatto osservava tutto questo con i suoi occhi ambrati. Sembrava capirne qualcosa, della vastità della notte, delle stelle brucianti sull’apatica massa del cielo, dei molteplici destini dell’uomo, dei meccanismi della natura. I gatti sembrano capire ogni cosa, e forse capiscono realmente.
Siamo così stupidi da credere di essere noi a doverci prendere cura di loro, ma forse sono loro a prendersi cura di noi, chiedendo alle stelle del nostro destino.
Il gatto, immobile come una statua, contemplava le stelle. Io contemplavo lui, come lo sciocco che contempla il dito e non le stelle. Le stelle in realtà balenavano nei suoi occhi come desideri inespressi, e potevo quasi contarle, per quanto erano chiari e limpidi quegli occhi.
Mai essere umano vivente avrà quegli occhi, e quell’innocenza naturale che col tempo l’uomo ha perso diventando bestia. In una notte d’agosto, pensavo a tutto ciò, osservando il gatto nero che a sua volta osservava le algide e fredde stelle accoccolato sul gradino della porta di casa mia.
Erano giorni che si fermava proprio davanti alla mia porta. All’inizio non prestai attenzione alla sua vispa presenza. Pensai che si trattasse di un gatto qualunque, lo accarezzai qualche volta prima di andar via di casa, ma sovrappensiero, chiedendomi se avessi dimenticato qualcosa di indispensabile in casa. In ogni caso, avevo la mente affollata di sogni, di impegni, di sensazioni. Roba che nemmeno un’agenda, o un diario, o un quaderno, sarebbero riusciti a contenere.
Fu in seguito che mi resi conto che forse il gatto non era lì per caso. Era un segno. Nella mia costante ansia di cambiamento, riuscii a pensare che quel gatto fosse lì per farmi capire che tutto stava cambiando.
Ma cosa avrebbe dovuto cambiare?
Gestivo una libreria a pochi passi da casa. La desideravo da sempre, data la passione dei miei genitori per la letteratura e per i libri storici ed esoterici. Alla fine la ottenni. Fu un lavoraccio metterla su, e mentre lo facevo rimpiangevo gli anni passati a sognare lunghi viaggi che nella realtà non avrei mai fatto. Misi da parte denaro su denaro per creare un’opera d’arte, come volevo che fosse. Un luogo di quieta grandezza e, allo stesso tempo, di dionisiaco furore. Alle pareti avevo appeso foto d’epoca, principalmente Marlene Dietrich e Maria Callas, due eterni ideali di bellezza che io non avrei mai raggiunto, essendo io bassa, tonda e profonda detrattrice dei tacchi alti che tanto erano cari a Marlene. La parete dietro al bancone era un tripudio di Klimt e Dalì. Uno accanto all’altro vi erano la Dafne e la Metamorfosi di Narciso, due quadri che mi trasmettevano una profonda e intensa soddisfazione, che nessun altro capirà mai. Quella libreria era la mia vita, o meglio, era ciò a cui avevo dedicato tutta la mia vita.
sabato 10 settembre 2011
Rembrandt #1
La nostra nascita, il nostro fiorire, che altro possono essere se non attimi in un oceano di secoli? Ci spegniamo come farfalle. Forse a nulla serve celebrare l'esistenza delle nostre fragili membra e della nostra geniale ma fatua mente.
Abbiamo paura del buio quando siamo piccoli, finiamo per temere la morte da adulti. Temiamo l'ignoto, immaginiamo, preghiamo, speriamo.
Gli idoli di carta nei nostri portafogli non sopravvivono a lungo. Anzi, muoiono in una fiammata, o si consumano col tempo, e in ogni caso non ci aiuteranno a sopravvivere agli scossoni della vita.
Nasciamo, cresciamo, assaggiamo la vita come un frutto ancora acerbo, le diamo solo un morso, e poi ci occupiamo d'altro. E quando la luce nei nostri occhi si spegne, allora ci ributtiamo su quel frutto che abbiamo rifiutato tempo addietro, e lo mangiamo avidamente, ma esso non è mai maturato, è stato come siamo stati noi, per attimi, ore, giorni, mesi, anni: incompleti.
venerdì 20 maggio 2011
Primi incontri - A. Tarkovskij
lo festeggiavamo come un’epifania,
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e – Dio mio! – tu eri mia.
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tu svelò
il proprio nuovo significato: zar.
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…
come un pazzo con il rasoio in mano.”
domenica 15 maggio 2011
La figlia del Diavolo
mercoledì 11 maggio 2011
Pensieri Nomadi
"Lo so che noi zingari siamo crudeli.
Non conosciamo l'amore sedentario. Per noi l'amore è viaggio, si estende ai confini più gelidi e solitari della terra, e ammesso che essa sia una sfera finiremo per tornare al nostro vecchio amore, a quel pezzo d'anima che aspetta il nostro ritorno.
Per me il viaggio si è concluso. Ho visto infinite terre in cui il mio sguardo si perdeva verso l'orizzonte. A volte sedevo sulle sponde di un lago, vedevo il sole annegare lontano e pensavo: è qui che devo restare. Oppure: mi piacerebbe davvero, vedere ogni giorno questo tramonto, seduto sempre qui, in questo punto, mi piacerebbe vedere sempre una stessa cosa. Ma il vento cambiava, il tramonto mi deprimeva, i giorni di pioggia lo annientavano. E io mi rimettevo in viaggio, ringraziavo per l'ospitalità e sparivo.
Mi sono innamorato di più sguardi, perchè gli occhi umani sono mondi che spesso non si ha il coraggio di affrontare. Ognuno di noi ha qualcosa di bello da raccontare di sè, qualcosa che riguardi quella che chiamano 'anima' ma che io non so definire con un nome solo. E così mi sono innamorato di più anime, ma nonostante ciò ho deciso di non appagarmi.
Io l'ho deciso. Nessun destino ha deciso per me.
Poi il mio cuore ha scelto e si è fermato per non viaggiare più. E questo è, in sostanza, anche amore: il fermare i propri passi e invecchiare con accanto una parte di te che, pur non essendoti mai appartenuta sul serio, è in te e da lì non uscirà mai più."
sabato 9 aprile 2011
Saturday Morning
- madre che gira per casa giurando di sentire un topo squittire
- cervello (il mio, quel poco che ne rimane) che riflette su quanto sarebbe utile avere un gatto, ERGO anche su quanto sarebbe utile avere un gatto con nove vite da consumare per dare la caccia ai topi
- padre che si sveglia alle 6 anche nei giorni festivi, eseguendo i movimenti di un elefante indiano che si addentra in una giungla di bambù [conseguente CRASH BANG BUM SBAM stile "ladri in casa"]
- colazione povera di contenuti - intelligente ma non si applica: caffè amaro (azz, lo zucchero!), latte dal sapore discutibile, biscotti di frumento
- telefono semiscarico in dieci min di conversazione - il segnale più forte del mio stress
- lo stile inconfondibile dei negozi d'abbigliamento made in China - colori agghiaccianti + "tutto sembra figo se indossato dal manichino"
- sbuffo davanti allo specchio nel mentre della prova vestito + frase fatta: "Mi sa che sono ingrassata. Pff. Devo dimagrire. Guarda che fianchi, sembro un Botero."
- cattiveria mammica: "Ti ho comprato le fragole. E anche la panna."
- caldo soffocante, 30° all'ombra. Tizi nudi che portano a spasso il cane, il quale è più vestito di loro. Mare figo. Pensiero di sè in costume da bagno. Brivido. Dietadietadieta.
- odore di mare e benzina. Mmmmh. Non tutti i mali vengono per nuocere.
- (non tutti, a parte il nuovo singolo di Giusy Ferreri... Questo sì, nuoce.)
- Мастер и Маргаритa, tuffo nel passato («Ieri, agli stagni Patriaršie, lei ha incontrato Satana.» ) Amore incondizionato per Michail Afanasevic. Perchè non pensare alla tesi?
- riassunti di storia contemporanea sulla situazione mediorientale dal dopoguerra agli anni '80-'90. Martedì esame. Tragedia [superabile].
- waitin' for better times to come. The day's not ended up yet.